23.1.05

L'era del cybergiornalista

17.12.2004

di Brizigrafo

Tentativo di contributo all'articolo di Pino Nicotri "Giornalisti solo con la laurea"

Scusate se m'intrometto in un argomento che mi riguarda marginalmente in quanto non-giornalista (avrei tanto voluto esserlo, ma a 19 anni, per snobismo, ho rifiutato un praticantato alla Gazzetta dello sport e mi sono fottuto - forse - ritrovandomi insegnante a vita). Pino Nicotri auspica una laurea obbligatoria per i giornalisti e chiede di parlarne. Parliamone.

Credo che tutti dovrebbero essere laureati, meglio, tutti dovrebbero avere un più elevato livello culturale, però temo non sia la laurea il problema dei giornalisti. Non è una laurea a fare un buon medico, un buon avvocato o un buon insegnante.

Ad esempio: conoscere una disciplina e non saperla insegnare è il problema dei docenti che docenti non sono, benché laureati. Ricordo anche un tempo in cui nella scuola media si assumevano farmacisti ad insegnare matematica. Disastro! Vogliamo ripeterci?

Lucidamente Nicotri stesso individua le ragioni per le quali i giornalisti sono, fatte le debite eccezioni, “marchettari”. Ma chi si percepisce come tale? Il bisogno d’autostima induce chiunque ad assolversi. Sostanzialmente è un sano meccanismo. Accade anche nelle altre professioni.

Ha ragione Pino Nicotri, è pazzesco che truffe e scandali li scoprano tutti tranne i giornali, eppure dubito che un giornalista “colto” sia meno pericoloso di un giornalista “ignorante” – perché ignora. Anzi!

Non ho certezze, ma mi chiedo se non sia proprio "il mestiere del giornalista" così come è stato concepito negli anni eroici della carta stampata ad essere finito.

Mi spiego. La comunicazione elettronica, i bit d’informazione che hanno reso Bill Gates l’uomo più ricco del mondo, hanno davvero mutato tutto. Non ce n’è ancora vera coscienza. Thomas S. Kuhn osserva che un cambiamento profondo richiede circa venticinque anni per verificasi, perché prima devono scomparire i sostenitori del vecchio paradigma.

Io sto scrivendo per un giornale on-line (senza esserne richiesto e senza compensi). Contemporaneamente ascolto, in differita, Pier Luigi Vercesi che mi legge i giornali dalla rassegna stampa di Radio 3. In rete approfondirò ciò che più m'interessa. Altre notizie ed articoli li reperirò in base alle mie necessità. Ho a disposizione agenzie, stampa italiana ed estera, siti specializzati. In altri termini quotidianamente mi confeziono un giornale personalizzato. Sempre più raramente sento il bisogno di una copia cartacea.

I contenuti di Internet possono essere spazzatura al novantanove per cento, tuttavia in quell'infima percentuale che si salva c'è tutto ciò che occorre, praticamente in ogni campo del sapere. Certo è richiesta capacità di ricerca e verifica incrociata delle fonti per quanto attendibili siano, ma non sono questioni nuove. Cambiano modi e tempi per affrontarle.

Non intendo con ciò dire che non servano più giornali e giornalisti. Piuttosto penso che si stia diffondendo una sorta di "giornalismo diffuso" sparso nel Web che giornalismo più non è. E' transito tecnologico di comunicazione, ICT appunto, in una comunità aperta di pari che nello stesso tempo sono produttori e fruitori d’informazioni.

Bello e democratico, no? Ovviamente non sono così candido da credere che tutto andrà per il meglio e vivremo nel migliore dei mondi possibili. Per la verità sembra che le cose vadano in ben altra direzione. Ciò nonostante condivido almeno in parte l'ottimismo di Pierre Lévy per "l'intelligenza collettiva" che si svilupperebbe nel cyber-spazio.

Insomma si sono aperte nuove dimensioni cognitive che vanno analizzate utilizzando strumenti diversi dai consueti. Parafrasando Scarlett O’Hara nella battuta finale di "Via col vento" viene da dire “Domani è un altro mondo e si vedrà”.

Il Latino nel materificio. E perché non il cinese?

15.12.2004

di Brizigrafo

L'articolo sottostante col titolo "Latinorum e altro" è stato ripreso e pubblicato in parecchi siti e anche dal giornale La Provincia Pavese

Dall'ITC al Liceo Economico

Dopo il Liceo tecnologico ecco che il latino si fa strada anche nel Liceo economico, un altro degli otto Licei previsti dalla legge 53. Verrà introdotto forse - la certezza è sempre una chimera nella riforma morattiana - nel primo biennio.

Personalmente non ho niente contro la lingua degli antenati. L'ho studiata a suo tempo con alterni risultati perché alterni erano i docenti. Non che non sapessero il latino, intendiamoci, come spesso accade pure negli altri insegnamenti non sapevano… insegnarlo. Quando ho incontrato un anziano gesuita affascinante che tuonava in latino ho trovato affascinante anche la materia. Transeat.

Ciò che mi lascia perplesso è l’inserimento di 13 discipline in 32 ore settimanali nel primo biennio di una scuola secondaria di secondo grado (per usare la dizione ufficiale) e tra queste anche il latino. Si desume da un’ipotesi sperimentale toscana, dal momento che il MIUR, sempre in ritardo sui tempi, sta demandando ad alcuni ITC l’avvio anticipato e strisciante della riforma. Stessa cosa era avvenuta per la scuola dell’obbligo.

Ora mi domando: si può pretendere che un alunno quattordicenne affronti tanto sapere tutto in una volta? È già di per sé una botta mortale. Per forza poi che, ferma restando la scrematura degli studenti più promettenti da parte dei licei più titolati, la decimazione delle bocciature diventi inevitabile!

Del resto nei licei definiti “più titolati” non che le cose vadano tanto meglio. Certo in un “corso ordinario” le ore settimanali nel biennio sono 26 su 9 materie: decisamente più umano. Fosse per me ridurrei ulteriormente e quantomeno spalmerei le ore di latino (4 alla settimana nel primo anno e 5 nel secondo) su altre discipline tipo inglese, matematica, storia o, che so, introducendo corsi di lettura di autori contemporanei o scrittura creativa.

Ma allora ce l’ho con il latino? No, penso dovrebbe essere una materia d’affezione, opzionale, piacere per la mente, in una scuola aperta tutto il giorno e a disposizione degli studenti, ma non organizzata come un materificio.

Quando sento tuttora dire che il latino, o altri insegnamenti, servono di nutrimento al cervello resto basito. Garantito, tutto quello che non ingozza nutre, ma che argomentazione è mai questa per introdurre una materia di studio?

Perché allora non introdurre il cinese che in quanto a tradizione culturale non scherza e sarebbe sicuramente più utile sul breve termine considerando il trend economico internazionale? Ben altre dovrebbero essere le considerazione per le quali si inseriscono o si tolgono insegnamenti in un ordinamento scolastico.

Questioni grosse, appena accennate, che richiederebbero grande dibattito. Mi piacerebbe ne parlassero gli “addetti ai lavori” invece di occupare il tempo ad inventarsi nuove “pagelle” e trovare anche i soldi per stamparsele visto che il Ministero non provvede più.

Caro Ferrara, io che sono un insegnante

17.11.2004

di Brizigrafo

Chissà che a Ferrara (il giornalista) non arrivi questa mia voce dal Barbiere

Molto partecipato lo sciopero della scuola. Fosse stato anche un terzo d’insegnanti ad aderire invece del 70% dichiarato dai sindacati sarebbe stato un successo. Quanti scioperi solitari nella mia lunga carriera!

Il malcontento per la riforma Moratti è evidente al di là delle cifre. Non ho trovato ancora un insegnante che ne rivendicasse apertamente la validità.

Le statistiche sono ballerine e spesso mentono. È un fatto però che nelle scuole quest’anno i soldi per l’autonomia sono quasi dimezzati. Si è sempre trattato di somme esigue, ma in una scuola con un centinaio di docenti e un migliaio di ragazzi passare da un fondo d’istituto di 15000 euro a 8000 si sente.

La finanziaria minaccia altri tagli oltre a quelli già decisi. Esponenti della maggioranza s’indignano dicendo che non è vero niente. Troppo impegnati a “governare” non sanno neppure cosa vanno ad approvare.

Nel marasma del centro-destra l’ultima “testa pensante” giornalistica (dopo la caduta di Mentana al TG5) dovrebbe essere lei direttor Ferrara.

Spesso la considero uomo violento e aggressivo con le armi di cui dispone, tuttavia talvolta mi accade fin anche di condividere il suo pensiero.

Della scuola e degli insegnati però non gliene potrebbe fregar di meno. In un editoriale del suo giornale usa strumentalmente il loro sciopero per scagliarsi contro i dipendenti statali e le loro richieste, a suo dire, eccessive, contro l’inutilità di scioperare per tagli di spesa, sempre a suo dire, inesistenti, contro i sindacati impegnati a dar vita ad una “opposizione sociale” di tipo politico. Tira anche le orecchie ai suoi, tanto infervorati nelle lacerazioni interne da prestare poca attenzione al fronte sociale.

Non sono certo io un difensore accanito degli insegnanti anche se ho dato al sindacato “gli anni migliori della mia vita” senza averne niente in cambio. Questa categoria è spesso colpa del suo male. Comunque parlare per categorie lascia il tempo che trova.

Ci sono ragioni per le quali i docenti sono quel che sono e richiederebbe molto tempo e spazio per analizzarle. Inoltre ogni individuo è un’entità al centro di una raggiera di rapporti sociali che ne fa una persona con pregi e difetti tutti suoi. Gli insegnanti non sfuggono la regola. Questa volta dunque voglio farne un caso personale.

Non m’interessa la professoressa con il marito in carriera che usa lo stipendio come argent de poche e certamente non sciopera. È una figura retorica sempre meno attuale anche se non del tutto estinta.

Voglio parlare di me. Lo sa sig. Ferrara quanto guadagno dopo oltre trent’anni di onorato servizio? Meno di 1500 euro al mese.

Quanto prende lei? Dieci, cento, mille volte di più?

Lungi da me l’idea di pretendere altrettanto. Il comunismo, come ideologia, è sepolto anche se non è detto che prima o poi non venga riesumato in qualche forma. Stendiamo poi un pietoso velo su quelle che sono state le sue realizzazioni storiche.

Ma, per quanto mi dispiaccia ammetterlo, tutto induce a pensare che il valore personale dipenda dal reddito. Non a caso sul sito del Corriere.it è rimasto per lungo tempo un apposito misurometro.

Dunque con la mia retribuzione sono ad un livello infimo e mi chiedo: ho realmente una preparazione culturale, abilità di scrittura, capacità critiche cento o mille volte inferiori di quelle di un Ferrara?

Dispostissimo ad ammettere che altre sono le doti che permettono a qualcuno di emergere sugli altri – ed io quelle doti non le ho – eppure è equo che il mio valore commerciale sia così basso?

Perché non posso permettermi non dico una casa a Manhattan, ma neppure a Cinisello e devo stare anche attento ai libri che compro altrimenti rischio di non arrivare a fine mese? Ecco ciò che spinge a scioperare pur di malavoglia – visto che ti ritrovi con cento e passa mila lire in meno che è più di quanto guadagni davvero in un giorno.

Già si sente il coro: fin troppo per quel che fanno gli insegnanti. Tre mesi di ferie più Natale e Pasqua, quattro ore di lavoro al giorno.

Spiegare quanto le cose siano cambiate negli ultimi anni servirebbe poco. Resta il marchio. Qualcuno sostiene: se non sai fare altro, insegni. Altri dicono: prendono poco per un antico patto con lo Stato. Posto sicuro, scarse responsabilità, nessuna pretesa d’impegno e, in cambio, bassi salari. Un destino condiviso con gli altri statali. Ma sono ancora validi questi cliché?

Ci sarebbe molto da discutere. È evidente però che in genere nella scuola i carichi di lavoro sono aumentati e il valore d’acquisto dello stipendio si è ridotto. Non parliamo neppure del prestigio sociale ché comunque raramente è disgiunto da quello economico.

Eppure, lei Ferrara non ci crederà, ma personalmente non mi sento neppure troppo bistrattato. Ho avuto più tempo per leggere, e pensare che facendo altre attività. Ho potuto anche “riciclarmi” occupandomi di ciò che più m’interessava fosse la letteratura, la comunicazione audiovisiva o l’informatica.

Ho accumulato conoscenze, spesso inutili perché non richieste, ma che soddisfano la curiosità e permettono di “capire” molto più di quanto accada ad altri lavoratori della mente. Mi è servito per trasmettere qualcosa a chi è in contatto con me: figli, studenti, colleghi. Poca cosa, perché poco è il mio sapere.

Ora ho un cruccio caro Ferrara. Vorrei sapere da lei, se potesse rispondermi, che fine faranno tutti quei diplomati e anche laureati che, mancanti di influenti famiglie alle spalle, vengono spremuti in lavori sottopagati, privi di diritti e garanzie, senza futuro. Avrebbero dovuto essere un motore supplementare per l’economia e diventeranno solo disoccupati quarantenni.

Dimenticavo gli altri, quelli ai quali la scuola – e questa è una grossa colpa – non ha neanche saputo fornire un’istruzione di base decente. Ecco in questa prospettiva l’invidia tace e m’importa meno se dovrò tirare ancora la carretta qualche anno con scarse gratificazioni economiche e qualche altro inutile sciopero.

Forse sono ancora tra i fortunati.

Mandate il vocabolario in rete

08.09.2004

di Brizigrafo

L'articolo sottostante è stato pubblicato con il titolo "La scuola con il computer" anche dal giornale La Provincia Pavese

Lo so che della scuola non frega niente a nessuno, però ci provo

Ballon d’essai come dicono i francesi. Iniziative per sondare le reazioni prima di lanciare proposte più consistenti riguardanti scuola e dintorni o bubbole estive? Cosa ne resterà in autunno vedremo.

Per il momento l’unica cosa tangibile è l’indicibile caos delle graduatorie dei docenti.

Elenchiamo quelle che hanno fatto maggiormente discutere. Libri di testo on-line con l’intento di prendere due piccioni con una fava: alleggerire gli zainetti scolastici e risparmiare sui costi di pubblicazione.

Bonus di millecinquecento euro per ogni neonato che i genitori potranno utilizzare al momento dell’ingresso del figlio nel mondo della scuola.

Classi per soli islamici.

Reclutamento diretto degli insegnanti da parte dei dirigenti scolastici e consigli d’istituto.

Da tempo si parla di una norma che fissi “il peso della cultura” trasportato quotidianamente negli zainetti scolastici.

Al dunque non se ne fa niente. Con il riaprirsi delle scuole frotte di ragazzini riprenderanno a caracollare pericolosamente su strade e bus sotto immani fardelli come se la qualità dell’apprendimento fosse direttamente proporzionale alla quantità dei libri trasportati.

Non so se ci siano prove scientifiche dei presunti danni fisiologici che taluni sostengono ne deriverebbero. Penso all’assurdità delle troppe ore trascorse in inconcepibili posture nella scomodità dei banchi scolastici come più probabile causa di rovine.

Tuttavia non può sfuggire l’irrazionalità di quel giornaliero trasporto eccezionale di materiali scolastici da casa a scuola e viceversa. Basterebbero armadietti personali come si vedono in televisione nelle scuole anglosassoni (e un po’ di buon senso nell’assegnazione dei “compiti a casa”) per risolvere il problema.

Ma da noi mancano sempre i fondi e soprattutto manca la mentalità di una scuola dove si “vive” veramente e non si sta soltanto seduti ad ascoltare fuggendo con tutte le masserizie appena si può.

Comunque da quando la Divina Commedia sta comodamente in un floppy e un’intera biblioteca in un CD a qualcuno avrebbe pur dovuto venire in mente che trasferire avanti e indietro tonnellate di dizionari e atlanti non ha senso.

Già, si dirà, ma, a parte la romantica suggestione della carta frusciante sotto le dita, per leggere i nuovi supporti ci vuole il computer!

Ineccepibile. Si sconta ancora una volta l’italica arretratezza informatica. In effetti con Internet e collegamenti efficienti tutto quanto occorre all’apprendimento potrebbe essere direttamente reperibile in rete.

Fantascienza? Per niente, è solo questione di struttura mentale. Del resto sarà pur vero che nelle nostre scuole mancano attrezzature informatiche, ma non è meno vero che anche quando ci sono vengono sottoutilizzate.

E i libri? Che fine faranno i libri? I libri rimarranno sempre e chi vorrà potrà farne l’uso di sempre. Ricordo esperienze didattiche dei primi anni novanta nelle quali i ragazzi i libri se li costruivano a scuola con computer e stampante (accadeva già prima e fin dai tempi del movimento di Celestine Freinet, anni ’20 del secolo scorso, ma era più complicato).

Inoltre avere biblioteche di classe aggiornate è cura di quegli insegnanti che hanno rifiutato la tradizionale adozione dei libri di testo unici e spesso obsoleti.

Insomma è tutta una questione d’applicazione di concezioni pedagogiche, qualcosa di cui si parla sempre meno non solo sulle pagine dei quotidiani – comprensibile non essendo i giornali il luogo adatto per discussioni specialistiche – ma anche, purtroppo, tra gli “addetti ai lavori” nelle scuole.

Talvolta problemi come computer si computer no, libri si libri no, zainetti pesanti zainetti leggeri, classi islamiche si classi islamiche no si rivelerebbero falsi problemi se ad occuparsene fossero insegnati competenti dal punto di vista pedagogico-didattico e psicologico.

Ciò che davvero dovrebbe interessare anche la così detta “utenza” (alunni e genitori, quelli che ormai alcuni chiamano “clienti”) è il certo risparmio di qualche centinaio di euro.

Il danno, è vero, sarebbe dell’editoria scolastica a basso costo ed alto profitto, ma lo Stato potrebbe benissimo convertire parte del risparmio in “buoni libro” per l’acquisto di testi diversi dai cloni presenti su ogni banco scolastico.

Di sicuro gli insegnanti e i genitori più attenti saranno interessati agli sviluppi delle autentiche e supercontestate novità della riforma quali l'istituzione del tutor, il tempo scuola con le mense e le tre o sei ore di «laboratori» (“facoltative” per le famiglie, ma “obbligatorie” per le scuole), i programmi nazionali, il portfolio delle competenze, l'accesso anticipato, l'insegnamento della seconda lingua straniera, il nuovo sistema di assunzioni dei docenti.

Sarà opportuno monitorarle con l’inizio dell’anno scolastico, per vedere cosa accadrà nelle singole realtà scolastiche.

Europei antisemiti. Antisemita sarà lei!

03.11.2003

di Brizigrafo

Sondaggio: chi minaccia la pace nel mondo. Scusi, ma di quale pace stiamo parlando?

Sei europei su dieci considerano Israele più pericolosa per la pace mondiale di Stati Uniti, Iran o Corea del Nord. Lo dice un sondaggio promosso dalla Commissione Europea. Si sono indignati i nostri uomini politici. Strillano all’antisemitismo i giornalisti di casa da Ostellino alla Mafai. Ma come? I terroristi, i musulmani, i comunisti obsoleti: questi sono una minaccia! L’Europa è sempre la stessa e incolpa di tutto gli ebrei.

Anch’io, senza voce, m’indigno. Mi sembra ovvio che l’America sia al primo posto come minaccia alla pace! Chi va in giro da anni per il mondo a guerreggiare accendendo micce che poi non sa spegnere? Ultimi Afganistan e Irak sono lì, sotto gli occhi di tutti. Transeat.

Premetto che tutta la faccenda, non sapendo come è stato effettuato il sondaggio, potrebbe rivelarsi una grande vaccata. Comunque sembra assurdo strepitare subito all’antisemitismo specie da parte di chi antisemita lo è stato davvero almeno nelle simpatie ideologiche che vanta.

Il problema sembra semplice. Gli europei, magari sbagliando, considerano gli ebrei, o meglio lo stato d’Israele, un pericolo per il comportamento nei confronti dei palestinesi (indipendentemente dalle simpatia o antipatie verso Arafat). In generale ha il suo peso la fama “guerriera” che gli israeliani si sono fatti in medio oriente già con le guerre degli anni sessanta (Moshe Dayan, ricordato come un "falco", forse era una "colomba" paragonato ai governanti attuali). Del resto l’esercito israeliano continua a compiere pericolosi raid contro i vicini. Il leader Sharon è di sicuro un militare dalla quantomeno dubbia fama di massacratore (Shabra e Chatila, settembre 1982) e si comporta da intransigente guerrafondaio. Magari vagamente gli europei hanno interiorizzato un po’ di queste cose che vengono fuori tra le pieghe di un sondaggio non so fino a che punto attendibile.

Tutto questo non c’entra niente con l’antisemitismo. Che poi gli europei siano in maggioranza geneticamente antisemiti può anche darsi e in quanto tali vanno duramente condannati. Ma che la guerra, perché di guerra bisogna parlare, tra Palestina e Israele sia un pericolo - non l’unico - per la pace mondiale sembra fuori dubbio. Considerando inoltre la potenza militare preponderante di Israele in tutto il Medio Oriente e la sua propensione ad usare la forza per risolvere i conflitti non si può non considerare l’attuale governo israeliano una minaccia anche se personalmente ritengo più preoccupante in assoluto la politica aggressivo e miope del governo statunitense in carica.

Una considerazione di fondo: mi sento sempre più “fuori registro”. So che altri la pensano come me pur senza essere necessariamente “pericolosi estremisti” (o, nella fattispecie, “antisemiti”), ma fatico a ritrovarli. Ho la sensazione che stiano prendendo il sopravvento atteggiamenti irrazionali e violenti, privi d’argomentazioni e di dubbi che si rivolgono agli istinti più bassi degli ascoltatori e indicano nemici ovunque. Si semina odio, si fomenta la paura, si demonizza “l’altro”. Il buono sempre rintracciabile in un ragionamento che non sia pura invettiva viene sistematicamente ignorato. Manca il dialogo. La sopraffazione economica, militare, verbale è la norma. Il perdente, il “diverso” è deriso. Non si riconosce alcuna dignità al nemico e neppure all’avversario. Questa probabilmente è la vera minaccia per la pace.

Crocifissi e chador

27.10.2003

di Brizigrafo

"Balle illuministe" e secondeliceali

“Tanto rumor per nulla” verrebbe da dire.

‘Sta storia dei crocifissi rimossi dalle aule sa di stantio. C’è un sentore d’opposti integralismi, mai sopiti rancori, rivalse ideologiche che rigurgita dai troppi articoli sull’argomento. Non ne scriverei se non fossi stato messo a tacere in malomodo (sta nei canoni dell’adolescenzialità pensante) da una seconda liceale. Io, che mi riconosco nelle “balle illuministe” come direbbe Cacciari, penso che la scuola dovrebbe esse laica e dunque aconfessionale.

Però siamo in Italia, le insegnanti di religione le sceglie la Curia e le mette in ruolo lo Stato, c’è il Papa, il Concordato, una diffusa tradizione cattolica ecc. La famosa “gente” (termine orrido) se ne sbatte abbastanza, ma a scuola vuole che la religione s’insegni e siccome vota (la “gente”) la “classe” politica (altro termine orrido per indicare il ceto che sulla politica ci vive) la liscia per il verso del pelo. Insomma se il crocefisso lo vogliono se lo tengano.

Anche la Moratti pochi mesi fa ha autorevolmente ribadito il concetto.

Per amor di cronaca: Consiglio di Stato, Cassazione, Avvocatura dello Stato hanno tutte confermato la piena vigenza dell'art. 118 del Regio decreto n. 965 del 1924, che recita: “ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l'immagine del Crocifisso e il ritratto del Re”. E poi ci sono i numeri riportati da Tuttoscuola sul forte incremento di alunni stranieri nelle nostre scuole. Sono passati in cinque anni da 70 mila a 232 mila (il 3% del totale della popolazione scolastica). Di questi sono di religione non cristiana, e quindi potenzialmente “allergici” al crocifisso, 127 mila. E sono in rapida crescita (l'anno scorso erano un quarto in meno).

Il problema c’è. Io sono sensibile alle più disparate opinioni. Cerco ragioni persino nelle affermazioni di Bossi e Lega cantante. Così tentavo d’argomentare dialetticamente con la seconda liceale. Mal me ne incolse: subito cazziato.

Non c’è discussione: i crocifissi a scuola proprio non ci dovrebbero stare e neppure le sure o altri simboli. Punto e basta. Ma, dico, allora hanno ragione in Francia che, per le palle illuministe di cui sopra, non vogliono far entrare le ragazze coi chador in aula (ricordate la storia delle due liceali di famiglia ebrea – colta e non osservante – che hanno fatto scoppiare un caso perché, avvicinatesi all’Islam, volevano tenersi il velo islamico in classe?). No, mi si risponde, loro possono e sbaglia la Francia. Non capisco: niente simboli… No! Mi si replica, niente simboli appesi a scuola, ma tutti sono liberi di portarseli addosso.

Crocifissi appesi al collo, magari capovolti, orecchini tatuaggi… Beh passi per il crocifisso (non so bene il significato di “capovolto”, satanico?), ma allora la svastica? Mi si guarda neanche fossi un idiota. Certo! Anche la svastica come il Che la falcemartello e qualsiasi altra cosa uno voglia. Si deve essere liberi di mostrare quel che si vuole. Obietto: ma… tutti questi simboli indicano modi di pensare opposti, così ostentati si rischia d’andare allo scontro… NO! Sbaglio ancora. Già tutti hanno i loro simboli e non succede niente… Qui mi fermo.

Ci sono molte certezze in tutto ciò, certezza che io non ho. Magari ha ragione la seconda liceale, magari no. Vedremo.

Mussolini non ha ucciso nessuno e c'è bisogno del capo

14.09.2003

di Brizigrafo

Una ne dico cento ne penso

Per la serie una ne dico cento ne penso, o meglio, ne sparo una al giorno, Berlusconi ha assolto il fascismo dichiarando “Mussolini non uccise nessuno” “il confino era una vacanza”. Naturalmente si sono alzate voci autorevoli sui “rischi” di un nuovo fascismo.

Io concordo con ogni denuncia e gran parte delle cose dette spesso anche dottamente. Però, terra a terra, al di là dell’ovvia indignazione per tutto quanto sta accadendo, ricordo quando ero ragazzino e da una parte si diceva “si stava meglio quando c’era Lui” (lui era “il merda” di gaddiana memoria, Mussolini) e dall’altra s’invocava “a da venì Baffone” (baffone era Stalin tanto amato dalle masse sovietiche e dai proletari di tutto il mondo). Battute da bar che la dicevano lunga sugli umori popolari in tempi d’opposte ideologie e di dominio democristiano.

Il Berlusca è uomo da bar in sintonia con buona parte dei suoi elettori come ogni capopopolo. Pensa come loro, parla come loro, condivide con loro una scarsa preparazione culturale, si sente unto dal cielo per il successo ottenuto e vaste categorie di italiani lo capiscono perché come lui si credono più furbi degli altri, disprezzano sinceramente gli intellettuali e le loro “menate”, frutto di un lungo tirocinio di formazione mentale, mancano di qualsiasi memoria storica e apprezzano immensamente chi è vincente.

Per loro quelle del “cavaliere” (mi si permetta una digressione: “cavaliere” come Mussolini nell’italietta del tempo così ben disegnata da Novello nel “Signore di buona famiglia” dove si sprecano “cavalieri” “commendatori” “grandi ufficiali” e “sue eccellenze” e sicuramente il “nostro”, al pari di “lui” non disdegnerebbe di farsi chiamare “Sua Eccellenza”) non sono gaffe ma un modo “sincero” e benpensante d’esprimersi che fa piazza pulita degli incomprensibili bizantinismi democristiani (ricordate le “convergenze parallele”?) e un po’ di tutto il linguaggio del ceto politico incubato in quel periodo.

Del resto inutile negare che Mussolini e il fascismo (per non parlare del nazismo hitleriano) godettero, soprattutto in tempi di pace, di un vasto appoggio di massa. Forse si spiega l’attrazione-repulsione tra Bossi e Berlusconi proprio perché, a un livello più basso, “il senatur” è della stessa pasta. Al contrario, pur non scevri da beceraggini, tipi politici come Fini e D’Alema, sono stati partoriti nel clima della “balena bianca” democristiana.

Ciò che spaventa veramente è l’attrazione acritica per i dittatori dei ceto medi e bassi, inclini nei momenti di malessere economico e sociale che ingenerano insicurezza, a seguire le lusinghe di un “capo”. E allora mi vien da dire che non si può più parlare di “rischi” e lanciare “moniti”. Purtroppo ci siamo dentro fino al collo. Non potremo chiamarlo “fascismo” perché il fascismo è storicamente connotato, ma in qualche modo c’è un regime autoritario in atto che limita nei fatti la libertà di pensiero e condiziona pesantemente l’azione politica.

Si avvale di nuovi strumenti, quelli attuali, più efficaci che in passato, ma alla base, per creare consenso, resta la “propaganda”. Io posso scrivere queste cose, sempre che qualcuno me le pubblichi, perché il loro peso è infimo rispetto al potere espresso dalla globalità dei media che, in mano a chi ha il potere, illustrano le meraviglie della disuguaglianza sociale e le virtù dei “capi”.

Per il momento mancano strumenti coercitivi o provvedimenti particolarmente odiosi nei confronti dei dissidenti. Ci si limita all’insulto ad additarli al pubblico ludibrio, alla trasformazione di ogni confronto politico in rissa, all’occupazione di tutti gli spazi di controllo sociale con uomini propri, all’emarginazione del pensiero divergente. La sinistra, ammesso che ancora si possa chiamare sinistra il melting pop di partiti e persone che così vengano definiti, ha perso quella che era la sua grande virtù: la capacità pedagogica d’elevare i livelli culturali dei singoli in un insieme socialmente solidale.

Anche i soggetti tradizionalmente vicini ai valori del socialismo storico ora sono soli di fronte all’impatto dei potenti mezzi di comunicazione attuali. Sono sicuramente più informati di prima, ma assolutamente impotenti ad esprimere culture alternative a quelle proposte.

Per questo il mio più grande timore non è, o meglio non è ancora, quello di essere imprigionato e torturato soltanto perché mi ostino a pensare con la mia testa, ma quello di essere ormai in una fase di non ritorno nel pieno di un regime che, nonostante gli strilli quotidiani di una opposizione già di per sé poco credibile, conferma i suoi voti di tornata elettorale in tornata e magari li aumenta pure.

Questo nonostante le incredibili “intemperanze” verbali, le gaffe quotidiane, le figuracce internazionali del nostro ineffabile Presidente del Consiglio. Spero di sbagliarmi e mi scuso per la rozzezza dell’analisi.

Scuola, una questione di tagli

"La Provincia Pavese" 26 marzo 2004

La riforma della Moratti. Ecco che cosa sta accadendo

La riforma Brichetto Arnaboldi in Moratti si è faticosamente messa in moto, ma... a che gioco giochiamo? La bozza sugli organici per l’anno scolastico 2004-2005, stilata dal Ministero e presentata ai sindacati prevede, su scala nazionale, l’istituzione di 219 nuovi posti per la scuola dell’infanzia. Il resto sono tagli: 2.203 posti in meno per la primaria (ex elementare), 591 cattedre in meno per la secondaria di primo grado (ex media), 2.900 posti, sempre in meno, per la secondaria superiore. Anche il sostegno agli alunni handicappati subisce una riduzione di 800 posti.
Se queste sono le intenzioni, nero su bianco, c’è da chiedersi con che coraggio si propaganda l’assunzione di nuovi insegnanti. Il turnover verrà coperto sostanzialmente dall’assunzione in pianta stabile degli insegnanti di religione mentre i circa centomila precari che si aggirano per le scuole italiane - altrimenti non funzionerebbero - hanno poco da stare allegri.
Vediamo nel dettaglio.
Scuole d’infanzia: è evidente che duecentodiciannove nuovi insegnanti non potranno garantire l’ingresso anticipato all’ex scuola materna come prevede la riforma.
Primaria (ex elementare): non solo non ci potrà ragionevolmente essere ingresso anticipato, ma si andrà inesorabilmente, verso una riduzione secca, ancorché graduale, dell’orario scolastico, perfettamente in linea con l’abolizione del tempo pieno. Per la gradualità del resto si dovranno ringraziare - oltre alle beghe intergovernative che hanno fatto recedere il ministro, ma soltanto per il prossimo anno, dall’intenzione di modificare gli organici delle singole scuole - i docenti che, come già in passato, si esibiranno in più o meno graditi salti mortali, in nome dell’autonomia, nel tentativo di offrire un servizio simile, per estensione oraria, a quello degli anni precedenti.

Informatica e inglese

Per quanto concerne le famose «i» (informatica inglese impresa) si rende obbligatoria un’ora d’inglese alla settimana, peccato però che in molte realtà in passato se ne facessero tre. Anche l’informatica, c’era già e da parecchio tempo: trovava comodo spazio nei precedenti orari dilatati. Adesso con solo 27 ore obbligatorie settimanali, delle quali due di religione, una congrua collocazione non sarà semplice. In quanto all’impresa. la vera impresa sarà garantire, ancora per poco, la precedente offerta formativa.
Secondaria di primo grado (ex media): si comprime l’orario e tutte le discipline subiscono un ridimensionamento con conseguente ricaduta negativa sulla condizione dei docenti interessati, ma che fine faranno gli insegnanti d’educazione tecnica (che non s’identifica con l’informatica) è un bel mistero, a parte l’occuparsi dei recuperati «principi di economia domestica» in equa sostituzione della scomparsa «storia antica» (ché se ne fa fin troppa alla «primaria»)!
Anche gli insegnanti d’inglese che avrebbero potuto ben sperare in una espansione d’orario legata alla loro «i», si sono visti invece dimezzate le ore. Già perché si passerà da 99 a 54 l’anno, poco più di un’ora e mezza alla settimana contro le tre attuali! Il sottosegretario all’Istruzione Valentina Aprea ha dovuto ammetterlo, arrampicandosi poi sui vetri per dimostrare che, siccome un’ora è diventata obbligatoria nella primaria, alla fine se ne farà di più. Conti alla mano, s’è visto che non è vero. Per altro, a detta di tutti gli esperti, anche tre ore settimanali sono una quota insufficiente per l’efficace studio di una lingua straniera!

Arrivano le scadenze

Secondaria superiore: incombono le scadenze. In questi giorni le scuole superiori devono trasmettere i dati sulla formazione delle classi e sugli organici dei docenti per il prossimo anno scolastico. Tassativamente le classi devono avere fino a 30 alunni e non meno di 25. Con questi numeri è facile capire che la qualità dell’insegnamento continuerà ad essere quella che è se non peggio. Ogni buon insegnante sa quanto sia importante il rapporto studente-docente nell’apprendimento. Si badi bene non soltanto quando ci sono studenti in difficoltà, che in una classe di 30 alunni vengono inevitabilmente lasciati a se stessi e, ben che vada, consegnati alla «formazione professionale», ma per tutti. Anche chi merita viene limitato in una scuola povera di opportunità e di sinergie con i docenti. Cose risapute che hanno reso e continueranno a rendere le nostre superiori scuole pedagogicamente inadeguate, scuole dove per mesi i docenti non riescono neppure a focalizzare i volti dei propri studenti collegandoli ad un nome.
Per risparmiare, si continua a tagliare e ridurre ovviamente continuando a riempirsi la bocca con l’importanza strategica per la nazione del sistema dell’istruzione. Di fatto, il trend negativo viene scaricato sui gradi di scuola inferiori che godevano di maggiore riconoscimento internazionale grazie a diversi rapporti numerici, un tempo scuola prolungato e migliore attenzione alla pedagogia applicata alla didattica. Proprio una indagine dell’Ocse sul profilo culturale della popolazione di quindici anni (2000) ed una della associazione Iea sulla capacità di lettura dopo quattro anni di scuola (2001), mettono in luce quanto la scuola italiana sia stata socialmente più imparziale nello spalmare i risultati sull’intera popolazione scolastica di quella di altri Paesi, come l’Inghilterra o gli Stati Uniti, in cui le differenze fra le prestazioni migliori e quelli peggiori risultano molto più marcate.

Scuola, riforma solo sulla carta

"La Provincia Pavese" 14 settembre 2003

LA POLEMICA

«La riforma che non c'è». Così potrebbe essere ribattezzata la così detta "riforma Moratti".
A fine marzo è passata definitivamente la legge n. 53 con gran corollario di commenti. Ai primi di maggio sono uscite le prime bozze di "decreti attuativi" indispensabili per rendere la riforma operativa. Ma quelle bozze non sono mai diventati documenti definitivi perché all'interno del governo manca l'accordo per varare, almeno nella forma, una riforma sostanzialmente vuota di contenuti.
Siamo a settembre e, nella più assoluta incertezza, comincia un nuovo anno scolastico. In mancanza d'indicazioni tutto procede come prima. Poco male per l'inglese e l'informatica.
In realtà molte scuole elementari, almeno qui a Pavia, già da anni hanno inserito queste due "i" a partire dalle prime classi e, spesso, anche con un numero di ore superiori a quello indicato dalla riforma.
Maggiori le incertezze per il maestro tutor che nei primi tre anni dovrebbe restare nella sua classe dalle 18 alle 21 ore settimanali e per il quale il dirigente scolastico dovrebbe "garantire condizioni di continuità didattica". In altre parole per il tutor si prevede l'onore e l'onere di rimanere per almeno tre anni con i suoi alunni per un gran numero di ore occupandosi delle materie principali, tenere i rapporti con i genitori e coordinare tutto l'andamento didattico della classe. Questo "maestro prevalente", piace decisamente a pochi. Sembra un ritorno al maestro unico e crea disparità tra colleghi che si occupano di attività diverse. Partirà? Difficile visto il silenzio ministeriale al proposito.
Vediamo gli orari scolastici. Nella riforma per la scuola primaria - ex elementari - sono previste 27 ore a settimana. Ci sono poi 99 ore annue facoltative, pari a tre ore settimanali, per l'arricchimento dell'offerta formativa, tenendo conto delle richieste delle famiglie (canto, musica, attività espressive, sostegno agli alunni extracomunitari). Totale 30 ore a settimana, escluso il tempo della mensa. Nella secondaria inferiore, ex media - i termini "elementari" e "medie" sono definitivamente abrogati - il tempo scuola facoltativo è di 198 ore annue, ovvero sei ore a settimana, per un totale di 33 ore, sempre esclusa la mensa. Si tratta di una sensibile riduzione d'orario rispetto al tempo pieno che, verosimilmente, nei prossimi anni andrà ad esaurimento. Ne faranno le spese insegnanti, alunni e genitori. Anche qui per il momento tutto resta nel vago.
Ancora: la riforma prevedeva che in quelle scuole dove mancavano «specifiche professionalità» per garantire attività ed insegnamenti facoltativi, si ricorresse alla stipulazione di contratti con esperti esterni, nei limiti delle disponibilità di bilancio. Poiché ogni scuola è libera nelle sue scelte grazie all'autonomia scolastica, in mancanza di regole condivise, non mancheranno le disparità.
Poco male anche in questo caso, sennonché inevitabilmente gli istituti con maggiori potenzialità economiche diventeranno nel tempo scuole privilegiate. Non è un caso, infatti, se già si sente che in alcuna realtà scolastica si chiedono integrazioni economiche alle famiglie e, là dove i genitori sono più disponibili perché più facoltosi, si potranno così avviare iniziative altrove impossibili.
Sull'onda degli euro non può mancare la considerazione che mentre le istituzioni pubbliche si dibattono comunque in crescenti difficoltà economiche la scuola privata riceve nuovi contributi, questi sì a tambur battente. Senza entrare in polemiche ideologiche pare evidente, come giustamente annota Marco Lodoli in un articolo sulla Repubblica, che con quel gruzzolo dato indipendentemente dalle condizioni economiche a chi iscrive i propri figli alle istituzioni private, queste ultime "potranno rifare le poltroncine del teatro o il sistema di depurazione della piscina" con buona pace delle necessità primarie delle scuole pubbliche.
Insomma pare che oltre alla discutibile anticipazione delle iscrizioni per i più piccoli e il rischio d'espulsione anticipata dei quattordicenni dal sistema educativo, poco funzioni della tanto decantata riforma, se non quello che sembra stare più a cuore ai nostri governanti.
Molto altro si potrebbe scrivere al proposito circa le modifiche sugli esami, gli otto indirizzi dei nuovi licei, la formazione professionale e gli stage lavorativi, il ruolo delle Regioni, la valutazione biennale e i voti in condotta, la formazione in servizio degli insegnanti e la copertura finanziaria del tutto. Ci sarebbe di che annoiare chiunque. Meglio fermarsi qui.

La "non-riforma targata Moratti"

"Tracciati" febbraio 2002

Obiettivo: non scontentare chi conta davvero

A bocce ferme – si fa per dire perché ogni giorno ne salta fuori una nuova – sarebbe il caso di parlare un po’ di questa riforma-nonriforma-controriforma della scuola, ammesso e non concesso che a qualcuno interessi qualcosa. Come docente e curatore di siti scolastici ho seguito gli eventi attraverso la stampa nazionale ed Internet mettendo a disposizione d’insegnanti, genitori e quant’altri volessero una notevole messe d’articoli e documenti affinché ciascuno, in proprio, cercasse di farsi un’idea di quanto sta accadendo. Da parte mia confesso un certo disagio di comprensione. Scrivo dunque anche per capire e confrontarmi con i tanti colleghi che conosco e non si sono fermati alla valenza pedagogica dei “pensi” fatti trascrivere centinaia di volte sul quaderno, come ancora accade in un noto liceo pavese.
Parto da un dato significativo: un terzo dei cittadini italiani si colloca al limite dell'analfabetismo, cioè non dispone delle competenze culturali necessarie a leggere ed interpretare senza difficoltà un testo in prosa (un articolo di giornale o una lettera), a comprendere un grafico, a risolvere problemi di matematica o a svolgere semplici operazioni aritmetiche. Di questi, il 5% è del tutto analfabeta. Il fenomeno è particolarmente evidente tra coloro che hanno superato i cinquant’anni (ricerca IALS-SIALS, dati elaborati dal Censis).
Al proposito rilevo due cose: la scuola non ha fallito del tutto se gli under venticinque risultano dotati di una migliore competenza alfabetica; il grande aumento numerico degli anziani nella società indurrebbe ad una serie di considerazioni correlate dalle quali necessariamente mi astengo.
En passant riporto un trafiletto di Giorgio Bocca dal giornale La Repubblica: “Il 47 per cento degli iscritti a Forza Italia (il partito nazionale che la propaganda dell’onnipotente sistema televisivo assieme ai suoi vassalli e valvassori nella carta stampata descrive come il partito della buona borghesia emergente, del terziario informatico che sa le cose nuove del mondo) è privo di un titolo di studio superiore a quello elementare, il 78 per cento si riconosce nella cultura pubblicitaria di Mediaset”. Ricordo inoltre che la tanto, per molti versi legittimamente, vituperata riforma Gentile aveva il giusto presupposto di vincere la piaga dell’analfabetismo. Scrive Enzo Siciliano che “il fascismo delle prime ore si poteva permettere di dare il via a una scuola dove era affermato sia il principio della gratuità per tutti sia l’obbligo scolastico”.
La scuola di massa è un’invenzione abbastanza recente se si pensa, per esempio, al rigido sbarramento nell'eccesso alla scuola secondaria, mantenuto fino al 1962 con l'esame di licenza alla media non ancora unica. Considerando che la scuola pubblica, in Italia e altrove, è nata come esigenza di replicare la società della quale è funzione educante si comprende perché non si sia mai davvero liberata dalla sua vocazione primaria di riproduzione dell’élite dirigente. Tuttavia la scuola democratica di massa si è fatta strada nel corpo obsoleto della scuola per pochi dotati – soprattutto per meriti di censo. “Andare a spezzare il pane della cultura”, come dice con indulgente ironia una cara amica prof., è diventata una giornaliera consuetudine per tanti che lo fanno da anni e bene, più di quanto sia giustificato dalla considerazione sociale e dalla gratificazione economica che il mestiere dell’insegnare porta con sé. Parlo di “mestiere” perché insegnante è colui che ha una competenza pedagogica, didattica, psicologica e culturale costruita sui libri, consolidata nella pratica quotidiana e continuamente aggiornata in base ai cambiamenti sociali ed alle esigenze esistenziali dell’allievo. Sono cattivi maestri non soltanto quelli che non sanno, ma anche quelli che, pur sapendo tutto della loro materia, sono incapaci di trasmetterla e troppo spesso incolpano dell’insuccesso chi sta loro di fronte annoiato e perplesso. Ha ragione Raffaele Simone a segnalare il divario enorme che separa i giovani dalla scuola. Questo divario non è colmabile semplicemente rinnovando l’architettura scolastica. Se i prossimi educatori continueranno ad entrare nella scuola del tutto impreparati ad insegnare la distanza tra docenti e discenti s’accentuerà anziché diminuire. La scuola democratica di massa avrebbe dovuto assicurare, in primo luogo, una formazione di buon livello all'intera popolazione e che abbia fallito, nella sostanza, tale obiettivo si deve al fatto che una parte consistente del corpo docente non ha capito, quale fosse davvero il suo nuovo compito. Ne è controprova la continua resistenza ad ogni proposta di cambiamento, ultima in ordine di tempo quella nei confronti della riforma Berlinguer che, insieme alle evidenti incongruenze, era portatrice di qualche illusione di trent’anni di “buona” pedagogia. Sostiene Roberto Maragliano: “Nella legge 30 del 2000, la riforma dei cicli, c'è l'idea che la mutata situazione sociale richieda un rafforzamento della formazione di base, vale a dire un incremento delle opportunità offerte da una scolarizzazione comune che faccia giustizia di articolazioni strutturali interne (tra elementare e media) non più giustificabili, allo stato attuale, se non in chiave puramente ideologica. L'obiettivo al quale si aspira è assicurare a tutta la popolazione giovanile un'omogenea dotazione culturale e strumentale […]. Il centro gravitazionale di questo impianto non è più nella scuola liceale, com'era nel sistema che per comodità chiamiamo gentiliano, ma risiede, appunto, nella scuola di base”. Letizia Moratti nel testo di delega al governo della sua “riforma” ha fatto piazza pulita d’ogni cosa senza avere alle spalle, come aveva Giovanni Gentile, la pubblicazione dei due volumi del «Sommario di pedagogia come scienza filosofica». Si ritorna ad una radicale separazione tra formazione professionale e licei con ragazzini costretti a scegliere a quattordici anni. Alla fin fine si direbbe che lo scopo di tutta l’operazione legislativa sia condensato nel nono comma del sesto articolo che conclude la delega: “La legge 10 febbraio 2000, n. 30 è abrogata”.
Cosa succederà dopo, devolution e passaggio di competenze alle Regioni compreso, non è dato sapere. La sensazione è che al ministero dell’istruzione (dal quale non a caso si è tolto l’appellativo “pubblica”) si navighi a vista attenti a non scontrarsi con gli interessi degli elettori più potenti, del tutto indifferenti alle esigenze della categoria docente e assolutamente incompetenti rispetto alle necessità didattico-pedagogiche dei ragazzi. Sembra rafforzarsi l’idea che per insegnare basti un po’ di materno buonsenso con buona pace della sbandierata “professionalità”. Di fatto si tagliano gli organici (1300 insegnanti in meno solo in Lombardia il prossimo anno scolastico a fronte di 9000 studenti in più) e si immettono in ruolo 24000 insegnanti di religione cattolica scelti dalla curia, non dallo stato, in una scuola che si vorrebbe, se non laica, almeno aconfessionale. Ancora: dati ufficiali sanciscono una diminuzione di 37000 unità lavorative nel triennio venturo. In fondo tra dare e avere il risultato è positivo per l’”azienda”! Perle in un clima generalizzato di revisione del recente passato che dovrebbe spaventare anche i più benpensanti.

Via libera a Internet

"La Provincia Pavese" 27 settembre 2000

Anche la scuola apra le porte

Alcuni pedagogisti affermano che il linguaggio multimediale è una specie di "altra" lingua. Altra rispetto alla lingua "madre" che, a scuola, è costituita dal "libro" inteso come contenitore tradizionale dell'organizzazione totalizzante dei saperi (siano di carattere letterario, storico-scientifico o altro, poco importa).

Le ultime generazioni, quelle cresciute con televisione, cd musicali, videogiochi e computer, riconoscono invece come lingua madre i fasci di codici - parole, immagini, suoni - trasmessi nel cyberspazio, mentre il linguaggio univoco del libro è oggetto di faticoso apprendimento.

Si sarebbe cioè verificata una sorta di conversione di cui la scuola non è in grado di cogliere il significato più profondo. Mentre la cultura, intesa come terreno su cui si radica la coscienza collettiva, è ormai "cyber cultura", la scuola si arrocca nella difesa ad oltranza del libro come valore insostituibile, perdendo sempre più il contatto con la realtà.

Da qui la contraddizione libro-nuove tecnologie.

Che l'istituzione scolastica sia fondata sul potere quasi incontrastato del libro lo dimostra, se non altro, il peso folle degli zaini trasferiti avanti e indietro, casa-scuola, scuola-casa, dagli scolari.

Tuttavia i computer sono entrati nelle scuole accompagnati dal carisma dell'ufficialità, benché subito relegati nel "laboratorio d'informatica". Già questo la dice lunga sull'atteggiamento nei confronti delle "nuove tecnologie" perché, se è vero che informatizzare ogni classe costa ancora troppo, è altrettanto vero che raggruppare le macchine in un unico luogo significa considerare il linguaggio multimediale alla stregua di una qualsiasi altra materia, riconducendolo alla logica dei saperi "duri" da apprendere con fatica.

Non ci vogliono grandi conoscenze pedagogiche per comprendere che per imparare ad usare matite, penne, pennarelli e colori non servono troppe cognizioni teoriche sulla composizione chimica della grafite o di altri materiali, ma l'uso pratico degli strumenti. Qualcuno ancora ricorderà le quadernate di aste e puntini alle quali era costretto per imparare a scrivere. Si riteneva fosse propedeutico all'apprendimento anziché mortalmente noioso. Cerchiamo di non fare, con i computer, gli stessi errori. Mi oppongo all'idea tipicamente "libresca", e dunque "scolastica", che lo studio astratto della teoria e l'esercitazione pedante debbano precedere le più gioiose applicazioni pratiche.

Intendiamoci: per ragioni anagrafiche ed altro rimango legato alla galassia Gutemberg. Amo i libri.

Mi piacciono anche proprio per la loro consistenza fisica. Sono un lettore onnivoro e mi perdo facilmente nel piacere della lettura. Allora mi chiedo perché la scuola faccia di tutto per allontanare i ragazzi da questo piacere, imponendo letture assurde ad età assurde e, soprattutto, imponendo il leggere che è invece attività libera ed interattiva per eccellenza. Non trovo altra risposta se non che "il piacere", in quanto tale, sembra essere bandito dall'istruzione. Nonostante tonnellate di testi pedagogici sull'importanza del "piacere" nell'apprendimento, pare che gran parte dei professionisti dell'istruzione non abbiano ancora interiorizzato il concetto.

Sia chiaro: piacere e facilità non sono sinonimi. La scuola può e deve veicolare contenuti anche "difficili". Semplicemente abbia l'accortezza di farlo senza dimenticare che la forma con la quale li propone non deve necessariamente apparire ostica, "dura".

Il linguaggio dei media è vario ed accattivante. Basato su parole, immagini e suoni è, appunto, "lingua madre" delle ultime generazioni. Perché non sfruttarne la potenza tentando di sottrarlo, almeno per l'aspetto educazionale, al mortale monopolio dei gestori commerciali? L'indubbia curiosità per Internet dovrebbe essere stimolata da insegnanti competenti indirizzandola là dove le informazioni generiche diventano formative. In rete c'è moltissima spazzatura. Chi, se non la scuola, potrebbe fare scelte e guidare i ragazzini, ovviamente evitando con cura di annoiarli? Forse ci si renderebbe anche conto che l'opposizione libro-computer è più falsa di quanto sembri. In realtà l'era digitale, per il momento almeno, non uccide il libro. Anzi, non ci sono mai stati tanti titoli in libreria come negli ultimi anni. Infatti editare un libro è diventato facilissimo e costa sostanzialmente il costo della carta su cui è stampato. Il risultato è che anche in libreria, come sul WEB, è sempre più problematico rintracciare prodotti di qualità tra cumuli di spazzatura.

Esperti in tecnologie della comunicazione sostengono che dal libro è nata l'intelligenza privata, dalla TV e dalla radio una forma d'intelligenza collettiva e da Internet sta nascendo una forma d'intelligenza compresa tra le due. Se ciò è vero il ruolo della scuola, in quanto agenzia educativa, è favorire lo scambio dell'informazione di qualità dal libro alla parola orale e all'immagine e dall'immagine al libro. Un gioco a ritroso insomma del quale la scuola potrebbe farsi "piacevole" protagonista.

I nomadi? Bisogna convivere

"La Provincia Pavese" 22.11.2000

Pavia, il problema dei bambini a scuola e delle identità

"Sei un gagio". Il "gagio" è l'altro, il diverso, lo straniero. C'è inevitabilmente del dispregio nel termine. Questo sono io per gli "zingari". Ma guai a chiamarli "zingari"! A Pavia sono Sinti e "zingaro", con il disprezzo che ci mettiamo nel dirlo, è un insulto.
Osservo questo Rom istruito, vestito di nero come un prete, presidente dell'Opera Nomadi lombarda. E' un uomo pacato, scuro di carnagione, parlata senza doppie, tipica dei nostri "nomadi" che nomadi non lo sono quasi più perché, se si spostano, lo fanno in un'area ristretta di poche decine di chilometri. Sarà il "mediatore culturale" nel progetto che la scuola Cabral ha avviato, l'uomo-ponte tra due culture irrimediabilmente ostili.
Da decenni abbiamo alunni Sinti nelle nostre classi e le difficoltà sono molte. Ci aspettiamo aiuti concreti dal suo intervento.
Non sono sicuro di capire quale sia il suo obiettivo. Sappiamo entrambi che non è possibile nessuna vera integrazione tra Sinti - o Rom - e residenti italiani. Sono realtà inconciliabili, almeno per il momento. Eppure tra noi insegnanti, da una parte, e lui, con i Servizi sociali, dall'altra, si cerca un terreno d'incontro per rendere più facile la convivenza delle etnie presenti sul territorio, nel rispetto delle differenti identità. E' una questione di civiltà.
Cosa ci accomuna? Forse l'idea che la miglior conoscenza dell'altro porti ad una maggiore disponibilità e la convinzione che elevare il livello di scolarizzazione individuale sia di beneficio anche alla collettività. Non ci facciamo illusioni: i problemi sono tanti. I Sinti mandano a scuola i ragazzini malvolentieri. Lo fanno perché hanno uno loro "politica" di mediazione con le istituzioni, ma non ci credono più di tanto, né intendono mescolarsi con i "gagi".
I locali, quelli con una casa di mattoni e un tetto sopra alla testa, considerano gli "zingari" ladri, sporchi e cattivi e non vorrebbero che i loro figli frequentassero le stesse scuole. Così stanno le cose, se non vogliamo essere ipocriti.
Gli insegnanti, garanti dell'obbligo scolastico, esteso al primo anno delle superiori, faticosamente cercano di mediare le tensioni, specialmente nelle "scuole di frontiera" - vicino ai campi, cioè - dove la presenza dei "nomadi" è massiccia. Francamente, però, dispongono di scarsi strumenti adeguati e mancano di preparazione specifica.
La miope propaganda razzista delle destre e la politica dello struzzo del centro-sinistra - i problemi non ci sono fin quando qualche scocciatore non li tira fuori - hanno peggiorato la situazione. Ora è evidente che non si possono spazzar via due affollati campi (con problematiche diversissime tra loro) e poi spargere letame dove sorgevano, come intendeva fare - o ha fatto - l'illuminato sindaco leghista di un paesotto lombardo.
E' altrettanto evidente quanto sia rischioso affrontare seriamente la ricollocazione di una comunità tanto scomoda senza scatenare contraccolpi politici. Da tutte le parti è facile essere demagogici su questo argomento. Se non è già troppo tardi, bisogna cominciare a gettare ponti tra sponde che si stanno sempre più divaricando. Rivolgersi a "mediatori culturali" sembra una buona strada intrapresa dall'attuale Amministrazione comunale. Tuttavia, in termini quantitativi, l'impegno resta inadeguato.
Purtroppo la cronica carenza di fondi dichiarata dalle istituzioni - e una certa sordità per i reali bisogni della scuola - incide sulle scelte. Gli stessi motivi impediscono all'Ufficio scolastico provinciale (ex Provveditorato) di svolgere la sua parte aggiungendo docenti di sostegno là dove la concentrazione di molti bambini nomadi lo rende indispensabile.
Ormai le nostre classi accolgono arabi, cinesi, slavi, africani e Sinti. Viviamo una realtà che necessariamente ci induce a progettare in funzione della specificità di culture diverse dalla dominante. In un futuro molto prossimo la presenza di stranieri costringerà tutte le scuole a misurarsi con questo fatto. Senza "mediatori culturali", senza figure di riferimento che conoscano a fondo lingua, mentalità e costumi dei loro popoli, ben poco si potrà fare per educare tutti al reciproco rispetto.
Noi siamo "maestri" e il nostro scopo è "educare", non soltanto trasmettere sapere. Ma siamo anche i famosi "vasi di coccio" che rotolano in compagnia del vaso di ferro. Vaso di ferro è la rovinosa ottusità di chi non capisce l'improrogabilità di trovare soluzioni equilibrate ai problemi pagando quanto è necessario in termini di tempo, energie e soldi. Demonizzare gli altri per la loro irriducibile diversità, è facile e spesso strappa l'applauso convinto dei "nostri", ma esaspera le situazioni innescando un disastroso cortocircuito di odio e paura. Spendersi per comprendere i diversi costa fatica e rende pochissima riconoscenza. Ciò nonostante è l'unica via che resta, a parte gli esorcismi e la violenza xenofoba.

E la guerra non è ripudiata

"La Provincia Pavese" 15 settembre 2001

I drammi e le diseguaglianze anche nel nuovo secolo

Il Novecento - "secolo del sangue" l'ha definito il Dalai Lama, premio Nobel per la pace - è finito e sembra che nulla faccia più orrore della memoria storica. Si vuole dimenticare.
Come immagini che tornano alla latenza, svaniscono le carneficine in trincea del primo conflitto mondiale, bombardamenti, guerre civili e sbarchi del secondo. Si mette in forse l'olocausto dei campi di concentramento, Hiroschima e Nagasakhi non evocano tragici ricordi.
Altre guerre, stragi e massacri perdono rapidamente il favore delle prime pagine e spariscono dalla coscienza collettiva: dal Vietnam all'ex Jugoslavia e alla Cecenia; dall'Angola al Ruanda al Kurdistan. Intanto una lunga striscia di dolore continua a percorrere il sud del mondo: America Latina, Africa, Medio Oriente, Asia. Né sono soltanto le guerre guerreggiate a mietere vittime, soprattutto tra i civili. Dove possono essere iscritti i morti giornalieri sul fronte del lavoro privo ormai d'ogni sicurezza? E quelli per fame?
Il nuovo secolo non sembra migliore del precedente. Siamo soltanto all'11 settembre del 2001 e a New York si consuma il più grave e spettacolare atto terroristico che la storia ricordi. Un numero incalcolabile di morti, frutto d'un odio che ha perso qualsiasi connotato d'umanità. Si dice: "Niente sarà più come prima". Vero probabilmente: soprattutto nel senso che saremo tutti un po' meno liberi di muoverci, di parlare, di pensarla diversamente. Saremo ancor più globalizzati.
Ma quanto ci metteranno i media a dimenticare e a far dimenticare? Nell'ossessione del "tempo reale", nessun elogio della lentezza è permesso. Guai a fermarsi, guardarsi indietro, chiedersi perché. La perdita di memoria non è soltanto storica, ma anche culturale. A duecentocinquant'anni di distanza dalle meditazioni voltairiane sulla miseria umana, sembra mancare la lucidità critica per comprendere che questo non è il migliore dei mondi possibile.
Aumenta la disuguaglianza e intere categorie di lavoratori sprofondano nella povertà. In un clima di selvaggio darwinismo sociale, tutti coloro che, per qualche ragione, sono più forti, tendono a sopraffare i più deboli.
La guerra, lungi dall'essere "ripudiata", come recita la nostra dimenticata Costituzione, torna a diventare una fatale necessità.

Gli uomini d'affari

Piaccia o non piaccia, il mondo è in mano a multinazionali finanziarie d'inedita potenza economica, assolutamente prive di scrupoli etici, feroci nell'affermazione del proprio dominio. All'interno di una logica di mercificazione assoluta, anche i peggiori criminali diventano rispettabili uomini d'affari.
Allegramente ci si avvia verso un disastro ampiamente annunciato continuando a correre, come locomotiva impazzita, sui binari di uno sviluppo assolutamente non sostenibile e sempre più deregolamentato.
Un costituzionalista come Giuseppe Branca scriveva, in prefazione ad una pubblicazione della Costituzione per le scuole, che senza regole "i forti picchierebbero i deboli, i furbi ingannerebbero gli ingenui, i ricchi schiaccerebbero i poveri". Parole semplici, sicuramente non condivise da chi vuole essere libero di muoversi senza leggi se non quelle dettate dalla new economy.

Costituzione addio

Tra i tanti oblii non ultimo quello dell'articolo 3 della fondamentale legge che, per il momento almeno, ancora ci regola. Dice: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alle leggi, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando, di fatto, la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Sembra incredibile.
Davvero datori di lavoro e lavoratori sempre più precari hanno la stessa dignità sociale? Davvero chi può permettersi avvocati di prim'ordine è tra i cittadini uguali davanti alle leggi? Davvero il sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, l'essere ricco o povero, professionista di successo o disoccupato non fa distinzione?
Discriminare i diversi per razza, abitudini sessuali, condizioni fisiche ed economiche, modo di pensare è la norma e c'è ormai chi se ne fa vanto ottenendo consensi anche elettorali. L'aumento costante del divario tra persona e persona e l'avvicinarsi alla "tolleranza zero" è sotto gli occhi di tutti.
"Tolleranza": parola che la dice lunga e, già di per sé, da rifiutare. Si "tollera" ciò che è sgradevole e dannoso. Indica sopportazione benevola dell'altro che rimane diverso e lontano. Non ha nulla a che vedere con il rispetto e i diritti. Invece le opinioni, i modi di vivere, l'aspetto fisico, le condizioni culturali ed economiche diverse dalla norma non possono essere oggetto di tolleranza, ma di rispetto e diritti riconosciuti. Soltanto così si garantisce dignità sociale.
Là dove manca la dignità, rispetto di sé e degli altri, resta il potere di chi sta sopra e il servilismo che sempre più sembra tenere insieme questa società. Non si esce da questo circolo vizioso con un po' di pelosa elemosina e compianto per chi sta peggio. Se ne esce ridando dignità ai due terzi del mondo che l'hanno persa. Ne saremo mai capaci?

L'obiettivo: fermare l'odio

"La Provincia Pavese" 28 settembre 2001

Retroterra e «mandanti» dell'attacco contro New York

Dopo il massacro alle torri gemelle di New York dell'11 settembre (ormai data storica) niente sarà più come prima. L'ho pensato e detto anch'io, ma sarà poi vero? Forse già "niente era più come prima".
Ben pochi al mondo non hanno visto le immagini trasmesse dalla CNN con il titolo America under attack. Tra questi sono i partecipanti all'edizione americana del "Grande Fratello", cosa che meriterebbe molte considerazioni. La cronaca è stata degna delle più apocalittiche fantasie. La successiva retorica delle dichiarazioni ha dimostrato, se ce ne fosse stato ancora bisogno, l'incapacità della TV parlata a penetrare la superficie degli eventi. Del resto, e lo diceva già Aristotele, un'immagine vale mille parole. Eppure quanto è successo non può restare consegnato alla sua tragica spettacolarità.
Condannare l'inaudito atto di criminalità è una reazione giusta e spontanea. Impossibile non sentirsi solidali con le migliaia di persone morte in maniera tanto atroce ed ancor più con i vivi rimasti ad elaborare un difficile lutto. Ci si domanda come esseri umani possano nutrire tanto odio per altri esseri umani da concepire un simile piano. L'odio è un sentimento viscerale che non tutti conoscono a fondo - io sono tra quelli -. Probabilmente è una fortuna. Ha fatto male, ad esempio, vedere immagini di palestinesi esultanti per l'attentato, ma forse loro sanno bene cosa significhi odiare dopo decenni d'occupazione israeliana. Per me, e credo per molti occidentali, è inconcepibile pensare a quelli che vengono definiti con rispetto dal loro popolo "martiri". D'acchito si direbbero esaltati, deboli di mente. Come è possibile imbottirsi d'esplosivo e andare ad ammazzare o straziare giovani che ballano in una discoteca, donne e bambini che viaggiano su un autobus? Se il discorso cambia quando gli obiettivi sono militari, resta comunque l'incomprensibilità del togliersi la vita. Come si fa ad azzerare l'istinto di sopravvivenza, quell'istinto che ha permesso agli ebrei di sopravvivere all'orrore dei campi di sterminio?
Le radici dell'odio sono profonde. Chi tra noi occidentali ricorda i duemila palestinesi e libanesi dei campi di Sabra e Chatila, alla periferia di Beirut, massacrati dal 16 al 18 settembre del 1982? Sharon, attuale leader israeliano, ne era il responsabile e magari per questa ferocità senza precedenti, che in qualche modo induce sicurezza, è stato eletto dai connazionali. Ma la disumanità è contagiosa e quando non c'è più niente da perdere perché è troppo difficile vivere si può buttar via la propria vita per fare un po' di male al nemico. E' terribile, come è terribile sentire i capi politici e spirituali di queste persone disperate istigare all'odio e alla violenza senza rischiare troppo in prima persona. Anche i terroristi che hanno colpito l'America e, probabilmente, dato una svolta alla storia contemporanea devono credere totalmente alle proprie ragioni per aver fatto quanto hanno fatto. Alla luce della ragione non può esserci motivazione che giustifichi un tale atto. Per quanto sia grande una sofferenza e per quanto sia grande il desiderio di vendetta, un conto è colpire i responsabili diretti, altro conto indurre morte e sofferenze inaudite in migliaia di persone prese a caso.
Se la storia non inganna dietro comportamenti tanto irrazionali stanno convincimenti ideologici e religiosi alimentati ad arte da capi senza scrupoli che fanno della gerarchia, e del servilismo che ne consegue, la base del proprio indiscusso potere. Altroché fine delle ideologie!
Io non so se Bin Laden sia il mandante della strage americana, ciò che si sa è che la CIA ha usato cinicamente in chiave antisovietica gli estremisti islamici e Bin Laden, finanziandoli ed armandoli, col bel risultato di mandare al potere i settari Talebani in Afghanistan. Ancora una volta a subire le conseguenze di politiche irresponsabili non siamo stati noi occidentali, ma gli abitanti di quel povero paese, in particolare le donne cadute in un abisso di orrori. Ora i Talebani minacciano ritorsioni sul mondo invitando tutti gli islamici ad unirsi a loro nella Jihad, la guerra santa, contro il diavolo occidentale. "Guerra santa": altra follia ricorrente delle religioni per giustificare l'ingiustificabile (anche le crociate erano "guerre sante"). Bin Laden è certamente un sanguinario fanatico sunnita ("sunna": regola di comportamento tratta dal Corano) convinto che il suo dio l'ha aiutato a sconfiggere la Russia e l'aiuterà a distruggere l'America, ma nessuno può, per questo, sentirsi autorizzato a considerare i musulmani in blocco come responsabili di quanto è avvenuto.
I fedeli islamici sunniti non sono tutti fondamentalisti assetati del sangue dei non credenti. I più, anzi, sono persone di grande civiltà benché con referenze culturali differenti dalle nostre. Cerchiamo di non fare il tragico errore di sospingere quelli culturalmente meno attrezzati tra le braccia degli integralismi religiosi così come tra le braccia del più becero razzismo stanno finendo frange consistenti di "civilissimi" occidentali. Personalmente sono agnostico, appartengo dunque ad una infima minoranza nel mondo, però rabbrividisco nel constatare il disprezzo per l'altrui esistenza e dignità di appartenenti a fedi che pure hanno nei loro testi richiami precisi alla sacralità della vita. Dimenticare che i musulmani sono tra le comunità di credenti più numerose nel mondo, cadendo nella trappola di una guerra tra opposte ideologie, sarebbe disastroso. Questo è il vero obiettivo di chi ha scatenato il terrore a New York. Odio chiama odio in una spirale che solo razionalità e comprensione possono spezzare.

16.1.05

CIAO, SIGNOR MAESTRO!

copertina libroCopertina di La mia scuola. Chi insegna si racconta, Enaudi, Gli struzzi, To, novembre 2005 (cur. Chiesa D., Trucco Zagrebelsky C.)

Gli insegnanti di tutta Italia - a partire da esperienze personali, dalla vita quotidiana in classe - raccontano cosa significhi oggi insegnare: tra difficoltà, riforme, molte frustrazioni e qualche gioia. Grazie a un'iniziativa promossa nelle scuole, dal sito web della casa editrice Einaudi e da "La Stampa", docenti di tutta la Penisola hanno fatto pervenire i propri racconti in prima persona. Il risultato è un ritratto corale della scuola dei nostri giorni, dal Nord al Sud. internetbookshop

A questo libro ho dato anch'io il mio contributo con il racconto "Ciao, signor maestro" che riproduco.

Il primo posto di ruolo l’ho avuto in un paesino di quattro case, una grande stalla e un’osteria, sprofondato nella pianura ai margini della città. Da casa mia, in città, ci arrivavo in auto in venti minuti anche con la nebbia ed era come entrare in un altro mondo. In città c’erano i fascisti e i comunisti e in mezzo, potente e inamovibile, la DC. Nati democristiani temevamo, (sciocchi!) di morire democristiani.
Giovani estremisti di destra e di sinistra se le davano di santa ragione forse aspirando, nella loro giovanile confusione, a cose non troppo diverse gli uni dagli altri. Ma questo lo si sarebbe capito soltanto molto più tardi. Allora c’era la politica come passione e il sindacato come necessità. Si credeva nella “lotta di classe”.
In fondo era tutto più semplice: padroni da una parte, operai dall’altra. Non a caso Mastronardi, il maestro di Vigevano, raccontava in che modo a scuola si scambiavano i figli degli operai con quelli pregiati dei padroni scarpari, come figurine.

«Ciao signor maestro». La scuola era uno stanzone al piano terra su un corridoio vuoto. La nostra era l’unica classe, una pluriclasse. Le finestre sul retro spaziavano nei campi oltre un cortiletto cintato. Ero riuscito a farmi dire “ciao” ma il “signor” restava. Graziella però s’aggrappava e mi dava un bacio sulla barba d’ordinanza da Gesù Cristo. Graziella era la più piccolina sei anni mal contati, un peperino minuto con due spazzolini di codini sopra le orecchie. La sola a far la prima tra gli undici alunni. La sfida per il neomaestro: saprei mai insegnarle a leggere e scrivere? In seconda erano in quattro, tre bimbette e un maschietto. Due in terza, uno in quarta e tre in quinta. In tutto quattro “uomini” (cinque con me) e sette “donne”.

La ragazza della quinta, una quattordicenne dolce e pacata, era davvero un donnino. Con lei due fratelli: il più giovane sveglio come un furetto, in seconda; il più vecchio, dinoccolato e un po’ ombroso, ancora in quarta pur avendo già una quindicina d’anni. Abituata a far da mamma con il suo buonsenso mi ha dato una mano a gestire la situazione tutte le volte che si complicava. Più che una alunna è stata un’aiutante preziosa. Era lei a tenere un po’ d’ordine in classe e a caricare la stufa di legna nelle fredde mattinate invernali. Lei accudiva i piccoli quando frignavano e sempre lei teneva a freno le imprevedibili intemperanze del fratello maggiore.

C’era una grande stufa di ghisa in mezzo all’aula a riscaldarci quando fuori nevicava fitto e poi gelava. Altro che seiduesei! [1] La bidella si vedeva di rado. La mattina ci faceva trovare l’aula pulita e la stufa accesa, ma quando arrivavo io lei non c’era già più, probabilmente impegnata in qualche altra occupazione. Era Maria – si chiamava Maria la mia quattordicenne, un nome d’altri tempi – a tenere buoni tutti fino al mio arrivo, se tardavo un po’. Io, da sempre abituato ai termosifoni, ne mettevo troppa di legna nella stufa, fino a farla diventare incandescente e allora i pomelli delle guance, già per conto loro tendenti al rosso, si accendevano ancor di più. In particolare quelli di Patrizia che faceva seconda e aveva occhi grandi color del mare e trecce bionde come il grano maturo.
Dopo la merenda delle dieci e mezza si andava tutti fuori in cortile a fare a palle di neve e, se c’era il sole a sciogliere un po’ il ghiaccio, gli alberi sgocciolavano nell’azzurro terso. Era una meraviglia e si faticava a rientrare. Bagnati fradici ci raccoglievamo intorno alla stufa rovente con le scarpe che fumavano. Io leggevo qualche storia di Rodari tra l’attenzione generale. Leggendo, disegnando e chiacchierando arrivavano le dodici e mezza senza che ce ne accorgessimo.

Nelle giornate migliori – a scuola non tutte le giornate sono uguali – sembrava quasi un peccato smettere e quando dicevo «È ora ragazzi, a casa!» mi rispondevano in coro «Nooo… di già?!»
Le mie preoccupazioni pedagogiche non erano eccessive. L’attività didattica si concentrava nelle prime due ore. Mi ero procurato risme di carta e fogli da pacco, pennarelli di ogni misura, pastelli ad olio e a cera, pennelli e tempere e anche un ciclostile ad alcool per fare un giornalino in stile Célestine Freinet. Nessuno rimaneva a lungo senza sapere cosa fare. Distribuivo le schede preparate in base alle necessità individuali o di gruppo. Le battevo sul computer dell’epoca, una gloriosa Olivetti “lettera 22”, macchina da scrivere portatile. Permettevo sempre che si aiutassero reciprocamente. Io passavo tra i banchi, raggruppati per formare tavoli, a dare una mano.

Graziella, con il privilegio dell’ultima arrivata, si arrampicava sulle mie ginocchia si accomodava per bene e lì, ben protetta, imparava i rudimenti della lettura e della scrittura con un metodo rigorosamente globale. Ho avuto fortuna perché era lei molto in gamba e nessuno l’aveva ancora rovinata con le “letterine” a pappagallo “a bi ci di…” che non si leggono così, ché “ho fatto un giro in bici” diventerebbe “accao effeatitio uenne giierreo ienne biicii”. Dopo Natale leggeva e scriveva senza intoppi pure senza aver composto nessuna natalizia lettera-incubo come quella che il mio maestro aveva fatto stendere a me. Decine di volte l’avevo riscritta tra lacrime e rimbrotti prima che gli sbaffi d’inchiostro diventassero presentabili per il pranzo di Natale.

Fin da allora sapevo, per averlo letto da qualche parte, che i bambini imparano a leggere e a scrivere comunque, nonostante gli insegnanti, a meno che non abbiano problemi particolari. Con l’esperienza ne ho avuto conferma così come del fatto che è l’apprensione degli adulti il peggior fattore ritardante dell’apprendimento. Anche parolacce come dislessia e discalculia, terrore degli insegnanti consapevoli, il più delle volte vengono superate da chi ne soffre seguendo ignote vie mentali, diverse da quelle battute dai più, a patto che ci siano tempi adeguati, non dettati dalla presunta rigidità dei programmi.


Fresco vincitore di concorso e fresco di studi, mi rendeva felice il facile successo. Per la prima volta avevo la sensazione di aver insegnato davvero qualcosa a qualcuno.In realtà non ero all’esperienza iniziale. Prima del concorso, avevo vagato tre anni in scuole medie sperse tra le viti dell’oltrepò e le risaie lomelline.


Intanto era arrivata l’820, la legge istitutiva del tempo pieno, quella abrogata lo scorso anno dalla nostra ineffabile Moratti che a sentirla duettare in TV col suo compare e superiore sembra averlo istituito lei il tempo pieno e non abolito. Con i direttori di nuova nomina si ragionava in sintonia pedagogica. Uno di loro, più tardi diventato provveditore, invitò me e la mia compagna a organizzarne uno nuovo nuovo, “sperimentale”. Tempo pieno voleva dire scuola aperta tutto il giorno, eliminazione della figura del “maestro unico”, compresenza tra docenti in base alle diverse competenze, laboratori, attività di gruppo, individualizzazione dell’apprendimento per chi ne aveva bisogno, rispetto dei ritmi biologici infantili, alternanza di gioco e lavoro in un clima di mutua collaborazione. Contrariamente a quel che si crede non c’era lassismo, c’era entusiasmo. Era recente l’insegnamento di Don Milani e la sua scuola di Barbiana. Einaudi pubblicava i libri di Mario Lodi. Umberto Eco scorazzava l’Italia con i suoi pamphlet contro le idiozie dei libri di testo. La scuola era in auge, insegnare tornava ad essere un lavoro dignitoso, ancorché mal pagato. La figura “missionaria” e francamente patetica della “maestrina dalla penna rossa” finalmente sbiadiva. Alle spalle si sentiva il “movimento”. Per dirla con le parole di Musil “Era passato qualcosa come quando molti alberi si piegano sotto una stessa ventata; uno spirito di setta e di riforma […] una piccola resurrezione come ne possono avvenire soltanto nei tempi migliori”.

Da allora, per un trentennio il tempo pieno è stato il mio territorio e mi sono opposto quando qualcuno ha cercato di trasformarlo in “tre per due” e “quattro per tre”, formule per nascondere tagli di personale scolastico. Ho sempre usato l’adozione alternativa dei libro di testo utilizzando i fondi, come permette una legge poco usata, per ampliare la biblioteca di classe. Mi sono aggiornato a mie spese prima insieme agli amici del Movimento di Cooperazione Educativa e poi in ogni altro modo possibile. Sono tornato in università a varie riprese per rinnovare le mie conoscenze. Ho sempre fatto parte di tutti gli organi collegiali possibili dal consiglio d’istituto al consiglio scolastico provinciale. Sono stato uno di quei rompipalle che quando prendono la parola in collegio docenti tutti si segnano perché «Uffa! Anche oggi non si va più a casa…». Conosco la scuola in tutti i suoi pregi e difetti. So quanto è cambiata nel tempo e quanto sono cambiato io con lei.
La scuola che ho vissuto non è quella del burnout degli insegnanti anche se capisco perfettamente chi ne è vittima. Non mi sono spento nella routine del ripetere sempre le stesse cose. Ho dedicato energie a lottare contro i mulini a vento e inaspettatamente ho ricevuto gratificazioni anche se non di carattere economico. Sarei morto nella noia se non avessi cercato stimoli di cambiamento. Così sono passato insieme ai miei ragazzi e ai colleghi che hanno voluto seguirmi dal cinema in superotto alle proiezioni in sedici millimetri, dalle telecamere semicieche della prima generazione alle prestazioni digitali, dalla fotografia in bianco e nero sviluppata nella magia della camera oscura alla manipolazione delle immagini con i Mac e gli Amiga, alla multimedialità, alla costruzione di siti e all’e-learning.

Questa sbrodolata per dire che non mi sono fermato alle barricate parigine del ’68 che, è stato scritto, dovevano essere lunghe come la muraglia cinese per ospitare tutti quanti affermano di esserci stati. Negli ultimi dieci anni mi sono occupato di TIC [2] e didattica. La nostra scuola ha un sito Internet tra i più funzionanti, edifici cablati, risorse condivise in rete Lan e oltre un centinaio di computer, sparsi tra aule e laboratori, per circa ottocento alunni. So benissimo che l’informatizzazione ha un senso solo se viene usata e non è facile far breccia in certe mentalità docenti. Ma se ho potuto spingere in questa direzione è perché ho trovato dirigenti e colleghi capaci di lavorare con il mio stesso entusiasmo.
Non è vero insomma che la scuola pubblica è soltanto quella dei muri sbrecciati, dei cessi rotti, degli infissi cadenti proposta dalla televisione. Ho conosciuto splendidi insegnati nel corso del tempo in innumerevoli convegni. Molti mi hanno fatto schiattare d’invidia perché sanno fare cose che io non mi sogno neanche. Altri sono capaci di un rapporto con i loro ragazzi così ricco come raramente sono stato in grado d’instaurare.
Non ne ricordo uno di scuola privata, anche se sicuramente ce ne saranno.

Personalmente ho fatto errori pedagogici e comportamentali per i quali, proprio perché ne conosco la portata, volentieri mi schiaffeggerei. Va messo in conto: si sbaglia spesso, anche sapendo di sbagliare. Mi sono cimentato in parecchie imprese, ma stranamente la mia area è stata quasi sempre quella matematica. Non ne sapevo quasi niente: i miei studi hanno provenienze umanistiche e mi è costato fatica darmi una preparazione in questo settore. Si è trattato con ogni probabilità di un’altra sfida e un’altra verifica pedagogica. Ho imparato molto insieme hai miei alunni proprio perché sapevo poco e il metodo per capire dovevo applicarlo anche su di me. Nella matematica razionalità, fantasia e gioco si mescolano in maniera imprevedibile. Osservare gli alunni crescere nel corso dei quinquenni e vederli divertirsi nell’uso di procedimenti logici fino a diventare, talvolta, più bravi di me è stata un’altra notevole soddisfazione.

Mi accorgo di essere ormai alla quarta cartella e non ho detto quasi niente di quanto avrei voluto. Poco male. Un’impresa collettiva di scrittura, è un po’ come “l’intelligenza collettiva” di cui parla Pierre Levy a proposito della conoscenza che viene condivisa nelle comunità virtuali sul WEB. La collezione degli interventi esaurirà tutte le posizioni possibili. Non vorrei però aver dato una visione idilliaca del mestiere di insegnare. Checché se ne dica nella scuola i carichi di lavoro sono aumentati e il valore d’acquisto degli stipendi si è ridotto. Il prestigio sociale degli insegnanti è ai minimi storici. I genitori hanno sempre più pretese in misura inversamente proporzionale alla capacità di condurre relazioni corrette con i figli. Precarietà, conflitti con colleghi e dirigenti, insicurezza circa il proprio ruolo nella società determinano ansie difficilmente placabili. Scarsa preparazione didattico-pedagogica-psicologica, indipendentemente dalle cognizioni specifiche nelle materie insegnate, causano difficoltà insanabili nel controllare la qualità del rapporto docente-discente. Non c’è di che meravigliarsi se l’insegnamento è considerato una attività di ripiego. Eppure questo “mestiere” mi ha dato più tempo per leggere e pensare. Ho potuto anche “riciclarmi” in base agli interessi, riguardassero la letteratura, la comunicazione audiovisiva o l’informatica. Ho accumulato conoscenze, spesso inutili perché non richieste, ma appaganti la curiosità. Così mi è stato permesso di capire molto più di quanto accada ad altri lavoratori della mente.

Avrei voluto scrivere di Antonio un tredicenne con lo sguardo da uomo che, appena arrivato, vagava indesiderato nei corridoi affidato alle cure di una insegnante di sostegno. Non sapeva né leggere né scrivere. Far di conto si, pur senza aver frequentato un giorno di scuola, avendo lavorato dall’età di sei anni nei mercati del sud. Approdato nella mia classe attraverso la porta aperta sul corridoio è rimasto con me due anni seguendomi anche in uno spostamento di plesso da una parte all’altra della città. Ha imparato quel tanto sufficiente a fargli superare la quinta elementare, frequentare poi le 150 ore e diventare un combattivo lavoratore.
O scrivere di una decenne napoletana consapevole dei sui diritti al punto di trasformare in pochi mesi un gruppetto di coetanee abbastanza timide e sottomesse in agguerrite femministe capaci di tener testa anche ai compagni più maschilisti.
O dire di quella volta che giocando a pallacanestro schierato con i più deboli contro i più forti (sempre così accade quando le squadre se le fanno da soli) sono malamente ruzzolato a terra rompendomi tre dita e mentre me ne stavo lì in mezzo alla palestra dolorante e incredulo guardandomele pendere dalla mano qualcuno dietro di me ha protestato: « …e allora maestro, quando ricominciamo!»
Cento altri episodi tornano alla memoria, ma è finito lo spazio. Ciao a tutti ragazzi!



[1] Ddl 626/94. Norme per la sicurezza e la salute negli ambienti di lavoro.
[2] TIC: tecnologia dell’informazione e della comunicazione [N.d.R]

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ARTICOLI PUBBLICATI

NOTA: nel "copia incolla" si è perso qualcosa rispetto alla formattazione originale. Chi vuole può vedere gli originali on-line cliccando sul link Brizigrafo subito sotto il titolo del primo articolo.

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  • Un ministro a Barbiana
  • Add'a veni' baffino
  • Dio è amore, l'Islam è la soluzione
  • La percezione dell'onestà di Fassino
  • Fumo di Londra
  • Interviste di gaddiana memoria
  • L'era del cybergiornalista
  • Il Latino nel materificio. E perché non il cinese?
  • Caro Ferrara, io che sono un insegnante
  • Mandate il vocabolario in rete
  • 17.12.2004

    L'era del cybergiornalista

    di Brizigrafo

    Tentativo di contributo all'articolo di Pino Nicotri "Giornalisti solo con la laurea"

    Scusate se mi intrometto in un argomento che mi riguarda marginalmente in quanto non-giornalista (avrei tanto voluto esserlo, ma a 19 anni, per snobismo, ho rifiutato un praticantato alla Gazzetta dello sport e mi sono fottuto - forse - ritrovandomi insegnante a vita). Pino Nicotri auspica una laurea obbligatoria per i giornalisti e chiede di parlarne. Parliamone.

    Credo che tutti dovrebbero essere laureati, meglio, tutti dovrebbero avere un più elevato livello culturale, però temo non sia la laurea il problema dei giornalisti. Non è una laurea a fare un buon medico, un buon avvocato o un buon insegnante.

    Ad esempio: conoscere una disciplina e non saperla insegnare è il problema dei docenti che docenti non sono, benché laureati. Ricordo anche un tempo in cui nella scuola media si assumevano farmacisti ad insegnare matematica. Disastro! Vogliamo ripeterci?

    Lucidamente Nicotri stesso individua le ragioni per le quali i giornalisti sono, fatte le debite eccezioni, “marchettari”. Ma chi si percepisce come tale? Il bisogno d’autostima induce chiunque ad assolversi. Sostanzialmente è un sano meccanismo. Accade anche nelle altre professioni.

    Ha ragione Pino Nicotri, è pazzesco che truffe e scandali li scoprano tutti tranne i giornali, eppure dubito che un giornalista “colto” sia meno pericoloso di un giornalista “ignorante” – perché ignora. Anzi!

    Non ho certezze, ma mi chiedo se non sia proprio "il mestiere del giornalista" così come è stato concepito negli anni eroici della carta stampata ad essere finito.

    Mi spiego. La comunicazione elettronica, i bit d’informazione che hanno reso Bill Gates l’uomo più ricco del mondo, hanno davvero mutato tutto. Non ce n’è ancora vera coscienza. Thomas S. Kuhn osserva che un cambiamento profondo richiede circa venticinque anni per verificasi, perché prima devono scomparire i sostenitori del vecchio paradigma.

    Io sto scrivendo per un giornale on-line (senza esserne richiesto e senza compensi). Contemporaneamente ascolto, in differita, Pier Luigi Vercesi che mi legge i giornali dalla rassegna stampa di Radio 3. In rete approfondirò ciò che più m'interessa. Altre notizie ed articoli li reperirò in base alle mie necessità. Ho a disposizione agenzie, stampa italiana ed estera, siti specializzati. In altri termini quotidianamente mi confeziono un giornale personalizzato. Sempre più raramente sento il bisogno di una copia cartacea.

    I contenuti di Internet possono essere spazzatura al novantanove per cento, tuttavia in quell'infima percentuale che si salva c'è tutto ciò che occorre, praticamente in ogni campo del sapere. Certo è richiesta capacità di ricerca e verifica incrociata delle fonti per quanto attendibili siano, ma non sono questioni nuove. Cambiano modi e tempi per affrontarle.

    Non intendo con ciò dire che non servano più giornali e giornalisti. Piuttosto penso che si stia diffondendo una sorta di "giornalismo diffuso" sparso nel Web che giornalismo più non è. E' transito tecnologico di comunicazione, ICT appunto, in una comunità aperta di pari che nello stesso tempo sono produttori e fruitori d’informazioni.

    Bello e democratico, no? Ovviamente non sono così candido da credere che tutto andrà per il meglio e vivremo nel migliore dei mondi possibili. Per la verità sembra che le cose vadano in ben altra direzione. Ciò nonostante condivido almeno in parte l'ottimismo di Pierre Lévy per "l'intelligenza collettiva" che si svilupperebbe nel cyber-spazio.

    Insomma si sono aperte nuove dimensioni cognitive che vanno analizzate utilizzando strumenti diversi dai consueti. Parafrasando Scarlett O’Hara nella battuta finale di "Via col vento" viene da dire “Domani è un altro mondo e si vedrà”.

    15.12.2004

    L'articolo sottostante col titolo Latinorum e altro è stato ripreso e pubblicato in parecchi siti e anche dal giornale La Provincia Pavese

    Il Latino nel materificio. E perché non il cinese?

    Dall'ITC al Liceo Economico

    Dopo il Liceo tecnologico ecco che il latino si fa strada anche nel Liceo economico, un altro degli otto Licei previsti dalla legge 53. Verrà introdotto forse - la certezza è sempre una chimera nella riforma morattiana - nel primo biennio.

    Personalmente non ho niente contro la lingua degli antenati. L'ho studiata a suo tempo con alterni risultati perché alterni erano i docenti. Non che non sapessero il latino, intendiamoci, come spesso accade pure negli altri insegnamenti non sapevano… insegnarlo. Quando ho incontrato un anziano gesuita affascinante che tuonava in latino ho trovato affascinante anche la materia. Transeat.

    Ciò che mi lascia perplesso è l’inserimento di 13 discipline in 32 ore settimanali nel primo biennio di una scuola secondaria di secondo grado (per usare la dizione ufficiale) e tra queste anche il latino. Si desume da un’ipotesi sperimentale toscana, dal momento che il MIUR, sempre in ritardo sui tempi, sta demandando ad alcuni ITC l’avvio anticipato e strisciante della riforma. Stessa cosa era avvenuta per la scuola dell’obbligo.

    Ora mi domando: si può pretendere che un alunno quattordicenne affronti tanto sapere tutto in una volta? È già di per sé una botta mortale. Per forza poi che, ferma restando la scrematura degli studenti più promettenti da parte dei licei più titolati, la decimazione delle bocciature diventi inevitabile!

    Del resto nei licei definiti “più titolati” non che le cose vadano tanto meglio. Certo in un “corso ordinario” le ore settimanali nel biennio sono 26 su 9 materie: decisamente più umano. Fosse per me ridurrei ulteriormente e quantomeno spalmerei le ore di latino (4 alla settimana nel primo anno e 5 nel secondo) su altre discipline tipo inglese, matematica, storia o, che so, introducendo corsi di lettura di autori contemporanei o scrittura creativa.

    Ma allora ce l’ho con il latino? No, penso dovrebbe essere una materia d’affezione, opzionale, piacere per la mente, in una scuola aperta tutto il giorno e a disposizione degli studenti, ma non organizzata come un materificio.

    Quando sento tuttora dire che il latino, o altri insegnamenti, servono di nutrimento al cervello resto basito. Garantito, tutto quello che non ingozza nutre, ma che argomentazione è mai questa per introdurre una materia di studio?

    Perché allora non introdurre il cinese che in quanto a tradizione culturale non scherza e sarebbe sicuramente più utile sul breve termine considerando il trend economico internazionale? Ben altre dovrebbero essere le considerazione per le quali si inseriscono o si tolgono insegnamenti in un ordinamento scolastico.

    Questioni grosse, appena accennate, che richiederebbero grande dibattito. Mi piacerebbe ne parlassero gli “addetti ai lavori” invece di occupare il tempo ad inventarsi nuove “pagelle” e trovare anche i soldi per stamparsele visto che il Ministero non provvede più.


    17.11.2004

    Caro Ferrara, io che sono un insegnante

    Chissà che a Ferrara (il giornalista) non arrivi questa mia voce dal Barbiere

    Molto partecipato lo sciopero della scuola. Fosse stato anche un terzo d’insegnanti ad aderire invece del 70% dichiarato dai sindacati sarebbe stato un successo. Quanti scioperi solitari nella mia lunga carriera!

    Il malcontento per la riforma Moratti è evidente al di là delle cifre. Non ho trovato ancora un insegnante che ne rivendicasse apertamente la validità.

    Le statistiche sono ballerine e spesso mentono. È un fatto però che nelle scuole quest’anno i soldi per l’autonomia sono quasi dimezzati. Si è sempre trattato di somme esigue, ma in una scuola con un centinaio di docenti e un migliaio di ragazzi passare da un fondo d’istituto di 15000 euro a 8000 si sente.

    La finanziaria minaccia altri tagli oltre a quelli già decisi. Esponenti della maggioranza s’indignano dicendo che non è vero niente. Troppo impegnati a “governare” non sanno neppure cosa vanno ad approvare.

    Nel marasma del centro-destra l’ultima “testa pensante” giornalistica (dopo la caduta di Mentana al TG5) dovrebbe essere lei direttor Ferrara.

    Spesso la considero uomo violento e aggressivo con le armi di cui dispone, tuttavia talvolta mi accade fin anche di condividere il suo pensiero.

    Della scuola e degli insegnati però non gliene potrebbe fregar di meno. In un editoriale del suo giornale usa strumentalmente il loro sciopero per scagliarsi contro i dipendenti statali e le loro richieste, a suo dire, eccessive, contro l’inutilità di scioperare per tagli di spesa, sempre a suo dire, inesistenti, contro i sindacati impegnati a dar vita ad una “opposizione sociale” di tipo politico. Tira anche le orecchie ai suoi, tanto infervorati nelle lacerazioni interne da prestare poca attenzione al fronte sociale.

    Non sono certo io un difensore accanito degli insegnanti anche se ho dato al sindacato “gli anni migliori della mia vita” senza averne niente in cambio. Questa categoria è spesso colpa del suo male. Comunque parlare per categorie lascia il tempo che trova.

    Ci sono ragioni per le quali i docenti sono quel che sono e richiederebbe molto tempo e spazio per analizzarle. Inoltre ogni individuo è un’entità al centro di una raggiera di rapporti sociali che ne fa una persona con pregi e difetti tutti suoi. Gli insegnanti non sfuggono la regola. Questa volta dunque voglio farne un caso personale.

    Non m’interessa la professoressa con il marito in carriera che usa lo stipendio come argent de poche e certamente non sciopera. È una figura retorica sempre meno attuale anche se non del tutto estinta.

    Voglio parlare di me. Lo sa sig. Ferrara quanto guadagno dopo oltre trent’anni di onorato servizio? Meno di 1500 euro al mese.

    Quanto prende lei? Dieci, cento, mille volte di più?

    Lungi da me l’idea di pretendere altrettanto. Il comunismo, come ideologia, è sepolto anche se non è detto che prima o poi non venga riesumato in qualche forma. Stendiamo poi un pietoso velo su quelle che sono state le sue realizzazioni storiche.

    Ma, per quanto mi dispiaccia ammetterlo, tutto induce a pensare che il valore personale dipenda dal reddito. Non a caso sul sito del Corriere.it è rimasto per lungo tempo un apposito misurometro.

    Dunque con la mia retribuzione sono ad un livello infimo e mi chiedo: ho realmente una preparazione culturale, abilità di scrittura, capacità critiche cento o mille volte inferiori di quelle di un Ferrara?

    Dispostissimo ad ammettere che altre sono le doti che permettono a qualcuno di emergere sugli altri – ed io quelle doti non le ho – eppure è equo che il mio valore commerciale sia così basso?

    Perché non posso permettermi non dico una casa a Manhattan, ma neppure a Cinisello e devo stare anche attento ai libri che compro altrimenti rischio di non arrivare a fine mese? Ecco ciò che spinge a scioperare pur di malavoglia – visto che ti ritrovi con cento e passa mila lire in meno che è più di quanto guadagni davvero in un giorno.

    Già si sente il coro: fin troppo per quel che fanno gli insegnanti. Tre mesi di ferie più Natale e Pasqua, quattro ore di lavoro al giorno.

    Spiegare quanto le cose siano cambiate negli ultimi anni servirebbe poco. Resta il marchio. Qualcuno sostiene: se non sai fare altro, insegni. Altri dicono: prendono poco per un antico patto con lo Stato. Posto sicuro, scarse responsabilità, nessuna pretesa d’impegno e, in cambio, bassi salari. Un destino condiviso con gli altri statali. Ma sono ancora validi questi cliché?

    Ci sarebbe molto da discutere. È evidente però che in genere nella scuola i carichi di lavoro sono aumentati e il valore d’acquisto dello stipendio si è ridotto. Non parliamo neppure del prestigio sociale ché comunque raramente è disgiunto da quello economico.

    Eppure, lei Ferrara non ci crederà, ma personalmente non mi sento neppure troppo bistrattato. Ho avuto più tempo per leggere, e pensare che facendo altre attività. Ho potuto anche “riciclarmi” occupandomi di ciò che più m’interessava fosse la letteratura, la comunicazione audiovisiva o l’informatica.

    Ho accumulato conoscenze, spesso inutili perché non richieste, ma che soddisfano la curiosità e permettono di “capire” molto più di quanto accada ad altri lavoratori della mente. Mi è servito per trasmettere qualcosa a chi è in contatto con me: figli, studenti, colleghi. Poca cosa, perché poco è il mio sapere.

    Ora ho un cruccio caro Ferrara. Vorrei sapere da lei, se potesse rispondermi, che fine faranno tutti quei diplomati e anche laureati che, mancanti di influenti famiglie alle spalle, vengono spremuti in lavori sottopagati, privi di diritti e garanzie, senza futuro. Avrebbero dovuto essere un motore supplementare per l’economia e diventeranno solo disoccupati quarantenni.

    Dimenticavo gli altri, quelli ai quali la scuola – e questa è una grossa colpa – non ha neanche saputo fornire un’istruzione di base decente. Ecco in questa prospettiva l’invidia tace e m’importa meno se dovrò tirare ancora la carretta qualche anno con scarse gratificazioni economiche e qualche altro inutile sciopero.

    Forse sono ancora tra i fortunati.

    08.09.2004

    L'articolo sottostante è stato pubblicato con il titolo La scuola con il computer anche dal giornale La Provincia Pavese

    Mandate il vocabolario in rete

    Lo so che della scuola non frega niente a nessuno, però ci provo

    Ballon d’essai come dicono i francesi. Iniziative per sondare le reazioni prima di lanciare proposte più consistenti riguardanti scuola e dintorni o bubbole estive? Cosa ne resterà in autunno vedremo.

    Per il momento l’unica cosa tangibile è l’indicibile caos delle graduatorie dei docenti.

    Elenchiamo quelle che hanno fatto maggiormente discutere. Libri di testo on-line con l’intento di prendere due piccioni con una fava: alleggerire gli zainetti scolastici e risparmiare sui costi di pubblicazione.

    Bonus di millecinquecento euro per ogni neonato che i genitori potranno utilizzare al momento dell’ingresso del figlio nel mondo della scuola.

    Classi per soli islamici.

    Reclutamento diretto degli insegnanti da parte dei dirigenti scolastici e consigli d’istituto.

    Da tempo si parla di una norma che fissi “il peso della cultura” trasportato quotidianamente negli zainetti scolastici.

    Al dunque non se ne fa niente. Con il riaprirsi delle scuole frotte di ragazzini riprenderanno a caracollare pericolosamente su strade e bus sotto immani fardelli come se la qualità dell’apprendimento fosse direttamente proporzionale alla quantità dei libri trasportati.

    Non so se ci siano prove scientifiche dei presunti danni fisiologici che taluni sostengono ne deriverebbero. Penso all’assurdità delle troppe ore trascorse in inconcepibili posture nella scomodità dei banchi scolastici come più probabile causa di rovine.

    Tuttavia non può sfuggire l’irrazionalità di quel giornaliero trasporto eccezionale di materiali scolastici da casa a scuola e viceversa. Basterebbero armadietti personali come si vedono in televisione nelle scuole anglosassoni (e un po’ di buon senso nell’assegnazione dei “compiti a casa”) per risolvere il problema.

    Ma da noi mancano sempre i fondi e soprattutto manca la mentalità di una scuola dove si “vive” veramente e non si sta soltanto seduti ad ascoltare fuggendo con tutte le masserizie appena si può.

    Comunque da quando la Divina Commedia sta comodamente in un floppy e un’intera biblioteca in un CD a qualcuno avrebbe pur dovuto venire in mente che trasferire avanti e indietro tonnellate di dizionari e atlanti non ha senso.

    Già, si dirà, ma, a parte la romantica suggestione della carta frusciante sotto le dita, per leggere i nuovi supporti ci vuole il computer!

    Ineccepibile. Si sconta ancora una volta l’italica arretratezza informatica. In effetti con Internet e collegamenti efficienti tutto quanto occorre all’apprendimento potrebbe essere direttamente reperibile in rete.

    Fantascienza? Per niente, è solo questione di struttura mentale. Del resto sarà pur vero che nelle nostre scuole mancano attrezzature informatiche, ma non è meno vero che anche quando ci sono vengono sottoutilizzate.

    E i libri? Che fine faranno i libri? I libri rimarranno sempre e chi vorrà potrà farne l’uso di sempre. Ricordo esperienze didattiche dei primi anni novanta nelle quali i ragazzi i libri se li costruivano a scuola con computer e stampante (accadeva già prima e fin dai tempi del movimento di Celestine Freinet, anni ’20 del secolo scorso, ma era più complicato).

    Inoltre avere biblioteche di classe aggiornate è cura di quegli insegnanti che hanno rifiutato la tradizionale adozione dei libri di testo unici e spesso obsoleti.

    Insomma è tutta una questione d’applicazione di concezioni pedagogiche, qualcosa di cui si parla sempre meno non solo sulle pagine dei quotidiani – comprensibile non essendo i giornali il luogo adatto per discussioni specialistiche – ma anche, purtroppo, tra gli “addetti ai lavori” nelle scuole.

    Talvolta problemi come computer si computer no, libri si libri no, zainetti pesanti zainetti leggeri, classi islamiche si classi islamiche no si rivelerebbero falsi problemi se ad occuparsene fossero insegnati competenti dal punto di vista pedagogico-didattico e psicologico.

    Ciò che davvero dovrebbe interessare anche la così detta “utenza” (alunni e genitori, quelli che ormai alcuni chiamano “clienti”) è il certo risparmio di qualche centinaio di euro.

    Il danno, è vero, sarebbe dell’editoria scolastica a basso costo ed alto profitto, ma lo Stato potrebbe benissimo convertire parte del risparmio in “buoni libro” per l’acquisto di testi diversi dai cloni presenti su ogni banco scolastico.

    Di sicuro gli insegnanti e i genitori più attenti saranno interessati agli sviluppi delle autentiche e supercontestate novità della riforma quali l'istituzione del tutor, il tempo scuola con le mense e le tre o sei ore di «laboratori» (“facoltative” per le famiglie, ma “obbligatorie” per le scuole), i programmi nazionali, il portfolio delle competenze, l'accesso anticipato, l'insegnamento della seconda lingua straniera, il nuovo sistema di assunzioni dei docenti.

    Sarà opportuno monitorarle con l’inizio dell’anno scolastico, per vedere cosa accadrà nelle singole realtà scolastiche.

    03.11.2003

    Europei antisemiti. Antisemita sarà lei!

    Sondaggio: chi minaccia la pace nel mondo. Scusi, ma di quale pace stiamo parlando?

    Sei europei su dieci considerano Israele più pericolosa per la pace mondiale di Stati Uniti, Iran o Corea del Nord. Lo dice un sondaggio promosso dalla Commissione Europea. Si sono indignati i nostri uomini politici. Strillano all’antisemitismo i giornalisti di casa da Ostellino alla Mafai. Ma come? I terroristi, i musulmani, i comunisti obsoleti: questi sono una minaccia! L’Europa è sempre la stessa e incolpa di tutto gli ebrei.

    Anch’io, senza voce, m’indigno. Mi sembra ovvio che l’America sia al primo posto come minaccia alla pace! Chi va in giro da anni per il mondo a guerreggiare accendendo micce che poi non sa spegnere? Ultimi Afganistan e Irak sono lì, sotto gli occhi di tutti. Transeat.

    Premetto che tutta la faccenda, non sapendo come è stato effettuato il sondaggio, potrebbe rivelarsi una grande vaccata. Comunque sembra assurdo strepitare subito all’antisemitismo specie da parte di chi antisemita lo è stato davvero almeno nelle simpatie ideologiche che vanta.

    Il problema sembra semplice. Gli europei, magari sbagliando, considerano gli ebrei, o meglio lo stato d’Israele, un pericolo per il comportamento nei confronti dei palestinesi (indipendentemente dalle simpatia o antipatie verso Arafat). In generale ha il suo peso la fama “guerriera” che gli israeliani si sono fatti in medio oriente già con le guerre degli anni sessanta (Moshe Dayan, ricordato come un "falco", forse era una "colomba" paragonato ai governanti attuali). Del resto l’esercito israeliano continua a compiere pericolosi raid contro i vicini. Il leader Sharon è di sicuro un militare dalla quantomeno dubbia fama di massacratore (Shabra e Chatila, settembre 1982) e si comporta da intransigente guerrafondaio. Magari vagamente gli europei hanno interiorizzato un po’ di queste cose che vengono fuori tra le pieghe di un sondaggio non so fino a che punto attendibile.

    Tutto questo non c’entra niente con l’antisemitismo. Che poi gli europei siano in maggioranza geneticamente antisemiti può anche darsi e in quanto tali vanno duramente condannati. Ma che la guerra, perché di guerra bisogna parlare, tra Palestina e Israele sia un pericolo - non l’unico - per la pace mondiale sembra fuori dubbio. Considerando inoltre la potenza militare preponderante di Israele in tutto il Medio Oriente e la sua propensione ad usare la forza per risolvere i conflitti non si può non considerare l’attuale governo israeliano una minaccia anche se personalmente ritengo più preoccupante in assoluto la politica aggressivo e miope del governo statunitense in carica.

    Una considerazione di fondo: mi sento sempre più “fuori registro”. So che altri la pensano come me pur senza essere necessariamente “pericolosi estremisti” (o, nella fattispecie, “antisemiti”), ma fatico a ritrovarli. Ho la sensazione che stiano prendendo il sopravvento atteggiamenti irrazionali e violenti, privi d’argomentazioni e di dubbi che si rivolgono agli istinti più bassi degli ascoltatori e indicano nemici ovunque. Si semina odio, si fomenta la paura, si demonizza “l’altro”. Il buono sempre rintracciabile in un ragionamento che non sia pura invettiva viene sistematicamente ignorato. Manca il dialogo. La sopraffazione economica, militare, verbale è la norma. Il perdente, il “diverso” è deriso. Non si riconosce alcuna dignità al nemico e neppure all’avversario. Questa probabilmente è la vera minaccia per la pace.

    27.10.2003

    Crocifissi e chador

    "Balle illuministe" e secondeliceali

    “Tanto rumor per nulla” verrebbe da dire.

    ‘Sta storia dei crocifissi rimossi dalle aule sa di stantio. C’è un sentore d’opposti integralismi, mai sopiti rancori, rivalse ideologiche che rigurgita dai troppi articoli sull’argomento. Non ne scriverei se non fossi stato messo a tacere in malomodo (sta nei canoni dell’adolescenzialità pensante) da una seconda liceale. Io, che mi riconosco nelle “balle illuministe” come direbbe Cacciari, penso che la scuola dovrebbe esse laica e dunque aconfessionale.

    Però siamo in Italia, le insegnanti di religione le sceglie la Curia e le mette in ruolo lo Stato, c’è il Papa, il Concordato, una diffusa tradizione cattolica ecc. La famosa “gente” (termine orrido) se ne sbatte abbastanza, ma a scuola vuole che la religione s’insegni e siccome vota (la “gente”) la “classe” politica (altro termine orrido per indicare il ceto che sulla politica ci vive) la liscia per il verso del pelo. Insomma se il crocefisso lo vogliono se lo tengano.

    Anche la Moratti pochi mesi fa ha autorevolmente ribadito il concetto.

    Per amor di cronaca: Consiglio di Stato, Cassazione, Avvocatura dello Stato hanno tutte confermato la piena vigenza dell'art. 118 del Regio decreto n. 965 del 1924, che recita: “ogni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula, l'immagine del Crocifisso e il ritratto del Re”. E poi ci sono i numeri riportati da Tuttoscuola sul forte incremento di alunni stranieri nelle nostre scuole. Sono passati in cinque anni da 70 mila a 232 mila (il 3% del totale della popolazione scolastica). Di questi sono di religione non cristiana, e quindi potenzialmente “allergici” al crocifisso, 127 mila. E sono in rapida crescita (l'anno scorso erano un quarto in meno).

    Il problema c’è. Io sono sensibile alle più disparate opinioni. Cerco ragioni persino nelle affermazioni di Bossi e Lega cantante. Così tentavo d’argomentare dialetticamente con la seconda liceale. Mal me ne incolse: subito cazziato.

    Non c’è discussione: i crocifissi a scuola proprio non ci dovrebbero stare e neppure le sure o altri simboli. Punto e basta. Ma, dico, allora hanno ragione in Francia che, per le palle illuministe di cui sopra, non vogliono far entrare le ragazze coi chador in aula (ricordate la storia delle due liceali di famiglia ebrea – colta e non osservante – che hanno fatto scoppiare un caso perché, avvicinatesi all’Islam, volevano tenersi il velo islamico in classe?). No, mi si risponde, loro possono e sbaglia la Francia. Non capisco: niente simboli… No! Mi si replica, niente simboli appesi a scuola, ma tutti sono liberi di portarseli addosso.

    Crocifissi appesi al collo, magari capovolti, orecchini tatuaggi… Beh passi per il crocifisso (non so bene il significato di “capovolto”, satanico?), ma allora la svastica? Mi si guarda neanche fossi un idiota. Certo! Anche la svastica come il Che la falcemartello e qualsiasi altra cosa uno voglia. Si deve essere liberi di mostrare quel che si vuole. Obietto: ma… tutti questi simboli indicano modi di pensare opposti, così ostentati si rischia d’andare allo scontro… NO! Sbaglio ancora. Già tutti hanno i loro simboli e non succede niente… Qui mi fermo.

    Ci sono molte certezze in tutto ciò, certezza che io non ho. Magari ha ragione la seconda liceale, magari no. Vedremo.

    14.09.2003

    Mussolini non ha ucciso nessuno e c'è bisogno del capo

    Una ne dico cento ne penso

    Per la serie una ne dico cento ne penso, o meglio, ne sparo una al giorno, Berlusconi ha assolto il fascismo dichiarando “Mussolini non uccise nessuno” “il confino era una vacanza”. Naturalmente si sono alzate voci autorevoli sui “rischi” di un nuovo fascismo.

    Io concordo con ogni denuncia e gran parte delle cose dette spesso anche dottamente. Però, terra a terra, al di là dell’ovvia indignazione per tutto quanto sta accadendo, ricordo quando ero ragazzino e da una parte si diceva “si stava meglio quando c’era Lui” (lui era “il merda” di gaddiana memoria, Mussolini) e dall’altra s’invocava “a da venì Baffone” (baffone era Stalin tanto amato dalle masse sovietiche e dai proletari di tutto il mondo). Battute da bar che la dicevano lunga sugli umori popolari in tempi d’opposte ideologie e di dominio democristiano.

    Il Berlusca è uomo da bar in sintonia con buona parte dei suoi elettori come ogni capopopolo. Pensa come loro, parla come loro, condivide con loro una scarsa preparazione culturale, si sente unto dal cielo per il successo ottenuto e vaste categorie di italiani lo capiscono perché come lui si credono più furbi degli altri, disprezzano sinceramente gli intellettuali e le loro “menate”, frutto di un lungo tirocinio di formazione mentale, mancano di qualsiasi memoria storica e apprezzano immensamente chi è vincente.

    Per loro quelle del “cavaliere” (mi si permetta una digressione: “cavaliere” come Mussolini nell’italietta del tempo così ben disegnata da Novello nel “Signore di buona famiglia” dove si sprecano “cavalieri” “commendatori” “grandi ufficiali” e “sue eccellenze” e sicuramente il “nostro”, al pari di “lui” non disdegnerebbe di farsi chiamare “Sua Eccellenza”) non sono gaffe ma un modo “sincero” e benpensante d’esprimersi che fa piazza pulita degli incomprensibili bizantinismi democristiani (ricordate le “convergenze parallele”?) e un po’ di tutto il linguaggio del ceto politico incubato in quel periodo.

    Del resto inutile negare che Mussolini e il fascismo (per non parlare del nazismo hitleriano) godettero, soprattutto in tempi di pace, di un vasto appoggio di massa. Forse si spiega l’attrazione-repulsione tra Bossi e Berlusconi proprio perché, a un livello più basso, “il senatur” è della stessa pasta. Al contrario, pur non scevri da beceraggini, tipi politici come Fini e D’Alema, sono stati partoriti nel clima della “balena bianca” democristiana.

    Ciò che spaventa veramente è l’attrazione acritica per i dittatori dei ceto medi e bassi, inclini nei momenti di malessere economico e sociale che ingenerano insicurezza, a seguire le lusinghe di un “capo”. E allora mi vien da dire che non si può più parlare di “rischi” e lanciare “moniti”. Purtroppo ci siamo dentro fino al collo. Non potremo chiamarlo “fascismo” perché il fascismo è storicamente connotato, ma in qualche modo c’è un regime autoritario in atto che limita nei fatti la libertà di pensiero e condiziona pesantemente l’azione politica.

    Si avvale di nuovi strumenti, quelli attuali, più efficaci che in passato, ma alla base, per creare consenso, resta la “propaganda”. Io posso scrivere queste cose, sempre che qualcuno me le pubblichi, perché il loro peso è infimo rispetto al potere espresso dalla globalità dei media che, in mano a chi ha il potere, illustrano le meraviglie della disuguaglianza sociale e le virtù dei “capi”.

    Per il momento mancano strumenti coercitivi o provvedimenti particolarmente odiosi nei confronti dei dissidenti. Ci si limita all’insulto ad additarli al pubblico ludibrio, alla trasformazione di ogni confronto politico in rissa, all’occupazione di tutti gli spazi di controllo sociale con uomini propri, all’emarginazione del pensiero divergente. La sinistra, ammesso che ancora si possa chiamare sinistra il melting pop di partiti e persone che così vengano definiti, ha perso quella che era la sua grande virtù: la capacità pedagogica d’elevare i livelli culturali dei singoli in un insieme socialmente solidale.

    Anche i soggetti tradizionalmente vicini ai valori del socialismo storico ora sono soli di fronte all’impatto dei potenti mezzi di comunicazione attuali. Sono sicuramente più informati di prima, ma assolutamente impotenti ad esprimere culture alternative a quelle proposte.

    Per questo il mio più grande timore non è, o meglio non è ancora, quello di essere imprigionato e torturato soltanto perché mi ostino a pensare con la mia testa, ma quello di essere ormai in una fase di non ritorno nel pieno di un regime che, nonostante gli strilli quotidiani di una opposizione già di per sé poco credibile, conferma i suoi voti di tornata elettorale in tornata e magari li aumenta pure.

    Questo nonostante le incredibili “intemperanze” verbali, le gaffe quotidiane, le figuracce internazionali del nostro ineffabile Presidente del Consiglio. Spero di sbagliarmi e mi scuso per la rozzezza dell’analisi.


    Altri articoli pubblicati di carattere scolastico



    "La Provincia Pavese" 26 marzo 2004

    La riforma della Moratti. Ecco che cosa sta accadendo

    Scuola, una questione di tagli

    La riforma Brichetto Arnaboldi in Moratti si è faticosamente messa in moto, ma... a che gioco giochiamo? La bozza sugli organici per l’anno scolastico 2004-2005, stilata dal Ministero e presentata ai sindacati prevede, su scala nazionale, l’istituzione di 219 nuovi posti per la scuola dell’infanzia. Il resto sono tagli: 2.203 posti in meno per la primaria (ex elementare), 591 cattedre in meno per la secondaria di primo grado (ex media), 2.900 posti, sempre in meno, per la secondaria superiore. Anche il sostegno agli alunni handicappati subisce una riduzione di 800 posti.
    Se queste sono le intenzioni, nero su bianco, c’è da chiedersi con che coraggio si propaganda l’assunzione di nuovi insegnanti. Il turnover verrà coperto sostanzialmente dall’assunzione in pianta stabile degli insegnanti di religione mentre i circa centomila precari che si aggirano per le scuole italiane - altrimenti non funzionerebbero - hanno poco da stare allegri.
    Vediamo nel dettaglio.
    Scuole d’infanzia: è evidente che duecentodiciannove nuovi insegnanti non potranno garantire l’ingresso anticipato all’ex scuola materna come prevede la riforma.
    Primaria (ex elementare): non solo non ci potrà ragionevolmente essere ingresso anticipato, ma si andrà inesorabilmente, verso una riduzione secca, ancorché graduale, dell’orario scolastico, perfettamente in linea con l’abolizione del tempo pieno. Per la gradualità del resto si dovranno ringraziare - oltre alle beghe intergovernative che hanno fatto recedere il ministro, ma soltanto per il prossimo anno, dall’intenzione di modificare gli organici delle singole scuole - i docenti che, come già in passato, si esibiranno in più o meno graditi salti mortali, in nome dell’autonomia, nel tentativo di offrire un servizio simile, per estensione oraria, a quello degli anni precedenti.

    Informatica e inglese

    Per quanto concerne le famose «i» (informatica inglese impresa) si rende obbligatoria un’ora d’inglese alla settimana, peccato però che in molte realtà in passato se ne facessero tre. Anche l’informatica, c’era già e da parecchio tempo: trovava comodo spazio nei precedenti orari dilatati. Adesso con solo 27 ore obbligatorie settimanali, delle quali due di religione, una congrua collocazione non sarà semplice. In quanto all’impresa. la vera impresa sarà garantire, ancora per poco, la precedente offerta formativa.
    Secondaria di primo grado (ex media): si comprime l’orario e tutte le discipline subiscono un ridimensionamento con conseguente ricaduta negativa sulla condizione dei docenti interessati, ma che fine faranno gli insegnanti d’educazione tecnica (che non s’identifica con l’informatica) è un bel mistero, a parte l’occuparsi dei recuperati «principi di economia domestica» in equa sostituzione della scomparsa «storia antica» (ché se ne fa fin troppa alla «primaria»)!
    Anche gli insegnanti d’inglese che avrebbero potuto ben sperare in una espansione d’orario legata alla loro «i», si sono visti invece dimezzate le ore. Già perché si passerà da 99 a 54 l’anno, poco più di un’ora e mezza alla settimana contro le tre attuali! Il sottosegretario all’Istruzione Valentina Aprea ha dovuto ammetterlo, arrampicandosi poi sui vetri per dimostrare che, siccome un’ora è diventata obbligatoria nella primaria, alla fine se ne farà di più. Conti alla mano, s’è visto che non è vero. Per altro, a detta di tutti gli esperti, anche tre ore settimanali sono una quota insufficiente per l’efficace studio di una lingua straniera!

    Arrivano le scadenze

    Secondaria superiore: incombono le scadenze. In questi giorni le scuole superiori devono trasmettere i dati sulla formazione delle classi e sugli organici dei docenti per il prossimo anno scolastico. Tassativamente le classi devono avere fino a 30 alunni e non meno di 25. Con questi numeri è facile capire che la qualità dell’insegnamento continuerà ad essere quella che è se non peggio. Ogni buon insegnante sa quanto sia importante il rapporto studente-docente nell’apprendimento. Si badi bene non soltanto quando ci sono studenti in difficoltà, che in una classe di 30 alunni vengono inevitabilmente lasciati a se stessi e, ben che vada, consegnati alla «formazione professionale», ma per tutti. Anche chi merita viene limitato in una scuola povera di opportunità e di sinergie con i docenti. Cose risapute che hanno reso e continueranno a rendere le nostre superiori scuole pedagogicamente inadeguate, scuole dove per mesi i docenti non riescono neppure a focalizzare i volti dei propri studenti collegandoli ad un nome.
    Per risparmiare, si continua a tagliare e ridurre ovviamente continuando a riempirsi la bocca con l’importanza strategica per la nazione del sistema dell’istruzione. Di fatto, il trend negativo viene scaricato sui gradi di scuola inferiori che godevano di maggiore riconoscimento internazionale grazie a diversi rapporti numerici, un tempo scuola prolungato e migliore attenzione alla pedagogia applicata alla didattica. Proprio una indagine dell’Ocse sul profilo culturale della popolazione di quindici anni (2000) ed una della associazione Iea sulla capacità di lettura dopo quattro anni di scuola (2001), mettono in luce quanto la scuola italiana sia stata socialmente più imparziale nello spalmare i risultati sull’intera popolazione scolastica di quella di altri Paesi, come l’Inghilterra o gli Stati Uniti, in cui le differenze fra le prestazioni migliori e quelli peggiori risultano molto più marcate.


    "La Provincia Pavese" 14 settembre 2003

    LA POLEMICA
    Scuola, riforma solo sulla carta


    «La riforma che non c'è». Così potrebbe essere ribattezzata la così detta "riforma Moratti".
    A fine marzo è passata definitivamente la legge n. 53 con gran corollario di commenti. Ai primi di maggio sono uscite le prime bozze di "decreti attuativi" indispensabili per rendere la riforma operativa. Ma quelle bozze non sono mai diventati documenti definitivi perché all'interno del governo manca l'accordo per varare, almeno nella forma, una riforma sostanzialmente vuota di contenuti.
    Siamo a settembre e, nella più assoluta incertezza, comincia un nuovo anno scolastico. In mancanza d'indicazioni tutto procede come prima. Poco male per l'inglese e l'informatica.
    In realtà molte scuole elementari, almeno qui a Pavia, già da anni hanno inserito queste due "i" a partire dalle prime classi e, spesso, anche con un numero di ore superiori a quello indicato dalla riforma.
    Maggiori le incertezze per il maestro tutor che nei primi tre anni dovrebbe restare nella sua classe dalle 18 alle 21 ore settimanali e per il quale il dirigente scolastico dovrebbe "garantire condizioni di continuità didattica". In altre parole per il tutor si prevede l'onore e l'onere di rimanere per almeno tre anni con i suoi alunni per un gran numero di ore occupandosi delle materie principali, tenere i rapporti con i genitori e coordinare tutto l'andamento didattico della classe. Questo "maestro prevalente", piace decisamente a pochi. Sembra un ritorno al maestro unico e crea disparità tra colleghi che si occupano di attività diverse. Partirà? Difficile visto il silenzio ministeriale al proposito.
    Vediamo gli orari scolastici. Nella riforma per la scuola primaria - ex elementari - sono previste 27 ore a settimana. Ci sono poi 99 ore annue facoltative, pari a tre ore settimanali, per l'arricchimento dell'offerta formativa, tenendo conto delle richieste delle famiglie (canto, musica, attività espressive, sostegno agli alunni extracomunitari). Totale 30 ore a settimana, escluso il tempo della mensa. Nella secondaria inferiore, ex media - i termini "elementari" e "medie" sono definitivamente abrogati - il tempo scuola facoltativo è di 198 ore annue, ovvero sei ore a settimana, per un totale di 33 ore, sempre esclusa la mensa. Si tratta di una sensibile riduzione d'orario rispetto al tempo pieno che, verosimilmente, nei prossimi anni andrà ad esaurimento. Ne faranno le spese insegnanti, alunni e genitori. Anche qui per il momento tutto resta nel vago.
    Ancora: la riforma prevedeva che in quelle scuole dove mancavano «specifiche professionalità» per garantire attività ed insegnamenti facoltativi, si ricorresse alla stipulazione di contratti con esperti esterni, nei limiti delle disponibilità di bilancio. Poiché ogni scuola è libera nelle sue scelte grazie all'autonomia scolastica, in mancanza di regole condivise, non mancheranno le disparità.
    Poco male anche in questo caso, sennonché inevitabilmente gli istituti con maggiori potenzialità economiche diventeranno nel tempo scuole privilegiate. Non è un caso, infatti, se già si sente che in alcuna realtà scolastica si chiedono integrazioni economiche alle famiglie e, là dove i genitori sono più disponibili perché più facoltosi, si potranno così avviare iniziative altrove impossibili.
    Sull'onda degli euro non può mancare la considerazione che mentre le istituzioni pubbliche si dibattono comunque in crescenti difficoltà economiche la scuola privata riceve nuovi contributi, questi sì a tambur battente. Senza entrare in polemiche ideologiche pare evidente, come giustamente annota Marco Lodoli in un articolo sulla Repubblica, che con quel gruzzolo dato indipendentemente dalle condizioni economiche a chi iscrive i propri figli alle istituzioni private, queste ultime "potranno rifare le poltroncine del teatro o il sistema di depurazione della piscina" con buona pace delle necessità primarie delle scuole pubbliche.
    Insomma pare che oltre alla discutibile anticipazione delle iscrizioni per i più piccoli e il rischio d'espulsione anticipata dei quattordicenni dal sistema educativo, poco funzioni della tanto decantata riforma, se non quello che sembra stare più a cuore ai nostri governanti.
    Molto altro si potrebbe scrivere al proposito circa le modifiche sugli esami, gli otto indirizzi dei nuovi licei, la formazione professionale e gli stage lavorativi, il ruolo delle Regioni, la valutazione biennale e i voti in condotta, la formazione in servizio degli insegnanti e la copertura finanziaria del tutto. Ci sarebbe di che annoiare chiunque. Meglio fermarsi qui.


    "Tracciati" febbraio 2002

    La "non-riforma targata Moratti"

    Obiettivo: non scontentare chi conta davvero

    A bocce ferme – si fa per dire perché ogni giorno ne salta fuori una nuova – sarebbe il caso di parlare un po’ di questa riforma-nonriforma-controriforma della scuola, ammesso e non concesso che a qualcuno interessi qualcosa. Come docente e curatore di siti scolastici ho seguito gli eventi attraverso la stampa nazionale ed Internet mettendo a disposizione d’insegnanti, genitori e quant’altri volessero una notevole messe d’articoli e documenti affinché ciascuno, in proprio, cercasse di farsi un’idea di quanto sta accadendo. Da parte mia confesso un certo disagio di comprensione. Scrivo dunque anche per capire e confrontarmi con i tanti colleghi che conosco e non si sono fermati alla valenza pedagogica dei “pensi” fatti trascrivere centinaia di volte sul quaderno, come ancora accade in un noto liceo pavese.
    Parto da un dato significativo: un terzo dei cittadini italiani si colloca al limite dell'analfabetismo, cioè non dispone delle competenze culturali necessarie a leggere ed interpretare senza difficoltà un testo in prosa (un articolo di giornale o una lettera), a comprendere un grafico, a risolvere problemi di matematica o a svolgere semplici operazioni aritmetiche. Di questi, il 5% è del tutto analfabeta. Il fenomeno è particolarmente evidente tra coloro che hanno superato i cinquant’anni (ricerca IALS-SIALS, dati elaborati dal Censis).
    Al proposito rilevo due cose: la scuola non ha fallito del tutto se gli under venticinque risultano dotati di una migliore competenza alfabetica; il grande aumento numerico degli anziani nella società indurrebbe ad una serie di considerazioni correlate dalle quali necessariamente mi astengo.
    En passant riporto un trafiletto di Giorgio Bocca dal giornale La Repubblica: “Il 47 per cento degli iscritti a Forza Italia (il partito nazionale che la propaganda dell’onnipotente sistema televisivo assieme ai suoi vassalli e valvassori nella carta stampata descrive come il partito della buona borghesia emergente, del terziario informatico che sa le cose nuove del mondo) è privo di un titolo di studio superiore a quello elementare, il 78 per cento si riconosce nella cultura pubblicitaria di Mediaset”. Ricordo inoltre che la tanto, per molti versi legittimamente, vituperata riforma Gentile aveva il giusto presupposto di vincere la piaga dell’analfabetismo. Scrive Enzo Siciliano che “il fascismo delle prime ore si poteva permettere di dare il via a una scuola dove era affermato sia il principio della gratuità per tutti sia l’obbligo scolastico”.
    La scuola di massa è un’invenzione abbastanza recente se si pensa, per esempio, al rigido sbarramento nell'eccesso alla scuola secondaria, mantenuto fino al 1962 con l'esame di licenza alla media non ancora unica. Considerando che la scuola pubblica, in Italia e altrove, è nata come esigenza di replicare la società della quale è funzione educante si comprende perché non si sia mai davvero liberata dalla sua vocazione primaria di riproduzione dell’élite dirigente. Tuttavia la scuola democratica di massa si è fatta strada nel corpo obsoleto della scuola per pochi dotati – soprattutto per meriti di censo. “Andare a spezzare il pane della cultura”, come dice con indulgente ironia una cara amica prof., è diventata una giornaliera consuetudine per tanti che lo fanno da anni e bene, più di quanto sia giustificato dalla considerazione sociale e dalla gratificazione economica che il mestiere dell’insegnare porta con sé. Parlo di “mestiere” perché insegnante è colui che ha una competenza pedagogica, didattica, psicologica e culturale costruita sui libri, consolidata nella pratica quotidiana e continuamente aggiornata in base ai cambiamenti sociali ed alle esigenze esistenziali dell’allievo. Sono cattivi maestri non soltanto quelli che non sanno, ma anche quelli che, pur sapendo tutto della loro materia, sono incapaci di trasmetterla e troppo spesso incolpano dell’insuccesso chi sta loro di fronte annoiato e perplesso. Ha ragione Raffaele Simone a segnalare il divario enorme che separa i giovani dalla scuola. Questo divario non è colmabile semplicemente rinnovando l’architettura scolastica. Se i prossimi educatori continueranno ad entrare nella scuola del tutto impreparati ad insegnare la distanza tra docenti e discenti s’accentuerà anziché diminuire. La scuola democratica di massa avrebbe dovuto assicurare, in primo luogo, una formazione di buon livello all'intera popolazione e che abbia fallito, nella sostanza, tale obiettivo si deve al fatto che una parte consistente del corpo docente non ha capito, quale fosse davvero il suo nuovo compito. Ne è controprova la continua resistenza ad ogni proposta di cambiamento, ultima in ordine di tempo quella nei confronti della riforma Berlinguer che, insieme alle evidenti incongruenze, era portatrice di qualche illusione di trent’anni di “buona” pedagogia. Sostiene Roberto Maragliano: “Nella legge 30 del 2000, la riforma dei cicli, c'è l'idea che la mutata situazione sociale richieda un rafforzamento della formazione di base, vale a dire un incremento delle opportunità offerte da una scolarizzazione comune che faccia giustizia di articolazioni strutturali interne (tra elementare e media) non più giustificabili, allo stato attuale, se non in chiave puramente ideologica. L'obiettivo al quale si aspira è assicurare a tutta la popolazione giovanile un'omogenea dotazione culturale e strumentale […]. Il centro gravitazionale di questo impianto non è più nella scuola liceale, com'era nel sistema che per comodità chiamiamo gentiliano, ma risiede, appunto, nella scuola di base”. Letizia Moratti nel testo di delega al governo della sua “riforma” ha fatto piazza pulita d’ogni cosa senza avere alle spalle, come aveva Giovanni Gentile, la pubblicazione dei due volumi del «Sommario di pedagogia come scienza filosofica». Si ritorna ad una radicale separazione tra formazione professionale e licei con ragazzini costretti a scegliere a quattordici anni. Alla fin fine si direbbe che lo scopo di tutta l’operazione legislativa sia condensato nel nono comma del sesto articolo che conclude la delega: “La legge 10 febbraio 2000, n. 30 è abrogata”.
    Cosa succederà dopo, devolution e passaggio di competenze alle Regioni compreso, non è dato sapere. La sensazione è che al ministero dell’istruzione (dal quale non a caso si è tolto l’appellativo “pubblica”) si navighi a vista attenti a non scontrarsi con gli interessi degli elettori più potenti, del tutto indifferenti alle esigenze della categoria docente e assolutamente incompetenti rispetto alle necessità didattico-pedagogiche dei ragazzi. Sembra rafforzarsi l’idea che per insegnare basti un po’ di materno buonsenso con buona pace della sbandierata “professionalità”. Di fatto si tagliano gli organici (1300 insegnanti in meno solo in Lombardia il prossimo anno scolastico a fronte di 9000 studenti in più) e si immettono in ruolo 24000 insegnanti di religione cattolica scelti dalla curia, non dallo stato, in una scuola che si vorrebbe, se non laica, almeno aconfessionale. Ancora: dati ufficiali sanciscono una diminuzione di 37000 unità lavorative nel triennio venturo. In fondo tra dare e avere il risultato è positivo per l’”azienda”! Perle in un clima generalizzato di revisione del recente passato che dovrebbe spaventare anche i più benpensanti.



    "La Provincia Pavese" 27 settembre 2000

    VIA LIBERA A INTERNET

    Anche la scuola apra le porte

    Alcuni pedagogisti affermano che il linguaggio multimediale è una specie di "altra" lingua. Altra rispetto alla lingua "madre" che, a scuola, è costituita dal "libro" inteso come contenitore tradizionale dell'organizzazione totalizzante dei saperi (siano di carattere letterario, storico-scientifico o altro, poco importa).

    Le ultime generazioni, quelle cresciute con televisione, cd musicali, videogiochi e computer, riconoscono invece come lingua madre i fasci di codici - parole, immagini, suoni - trasmessi nel cyberspazio, mentre il linguaggio univoco del libro è oggetto di faticoso apprendimento.

    Si sarebbe cioè verificata una sorta di conversione di cui la scuola non è in grado di cogliere il significato più profondo. Mentre la cultura, intesa come terreno su cui si radica la coscienza collettiva, è ormai "cyber cultura", la scuola si arrocca nella difesa ad oltranza del libro come valore insostituibile, perdendo sempre più il contatto con la realtà.

    Da qui la contraddizione libro-nuove tecnologie.

    Che l'istituzione scolastica sia fondata sul potere quasi incontrastato del libro lo dimostra, se non altro, il peso folle degli zaini trasferiti avanti e indietro, casa-scuola, scuola-casa, dagli scolari.

    Tuttavia i computer sono entrati nelle scuole accompagnati dal carisma dell'ufficialità, benché subito relegati nel "laboratorio d'informatica". Già questo la dice lunga sull'atteggiamento nei confronti delle "nuove tecnologie" perché, se è vero che informatizzare ogni classe costa ancora troppo, è altrettanto vero che raggruppare le macchine in un unico luogo significa considerare il linguaggio multimediale alla stregua di una qualsiasi altra materia, riconducendolo alla logica dei saperi "duri" da apprendere con fatica.

    Non ci vogliono grandi conoscenze pedagogiche per comprendere che per imparare ad usare matite, penne, pennarelli e colori non servono troppe cognizioni teoriche sulla composizione chimica della grafite o di altri materiali, ma l'uso pratico degli strumenti. Qualcuno ancora ricorderà le quadernate di aste e puntini alle quali era costretto per imparare a scrivere. Si riteneva fosse propedeutico all'apprendimento anziché mortalmente noioso. Cerchiamo di non fare, con i computer, gli stessi errori. Mi oppongo all'idea tipicamente "libresca", e dunque "scolastica", che lo studio astratto della teoria e l'esercitazione pedante debbano precedere le più gioiose applicazioni pratiche.

    Intendiamoci: per ragioni anagrafiche ed altro rimango legato alla galassia Gutemberg. Amo i libri.

    Mi piacciono anche proprio per la loro consistenza fisica. Sono un lettore onnivoro e mi perdo facilmente nel piacere della lettura. Allora mi chiedo perché la scuola faccia di tutto per allontanare i ragazzi da questo piacere, imponendo letture assurde ad età assurde e, soprattutto, imponendo il leggere che è invece attività libera ed interattiva per eccellenza. Non trovo altra risposta se non che "il piacere", in quanto tale, sembra essere bandito dall'istruzione. Nonostante tonnellate di testi pedagogici sull'importanza del "piacere" nell'apprendimento, pare che gran parte dei professionisti dell'istruzione non abbiano ancora interiorizzato il concetto.

    Sia chiaro: piacere e facilità non sono sinonimi. La scuola può e deve veicolare contenuti anche "difficili". Semplicemente abbia l'accortezza di farlo senza dimenticare che la forma con la quale li propone non deve necessariamente apparire ostica, "dura".

    Il linguaggio dei media è vario ed accattivante. Basato su parole, immagini e suoni è, appunto, "lingua madre" delle ultime generazioni. Perché non sfruttarne la potenza tentando di sottrarlo, almeno per l'aspetto educazionale, al mortale monopolio dei gestori commerciali? L'indubbia curiosità per Internet dovrebbe essere stimolata da insegnanti competenti indirizzandola là dove le informazioni generiche diventano formative. In rete c'è moltissima spazzatura. Chi, se non la scuola, potrebbe fare scelte e guidare i ragazzini, ovviamente evitando con cura di annoiarli? Forse ci si renderebbe anche conto che l'opposizione libro-computer è più falsa di quanto sembri. In realtà l'era digitale, per il momento almeno, non uccide il libro. Anzi, non ci sono mai stati tanti titoli in libreria come negli ultimi anni. Infatti editare un libro è diventato facilissimo e costa sostanzialmente il costo della carta su cui è stampato. Il risultato è che anche in libreria, come sul WEB, è sempre più problematico rintracciare prodotti di qualità tra cumuli di spazzatura.

    Esperti in tecnologie della comunicazione sostengono che dal libro è nata l'intelligenza privata, dalla TV e dalla radio una forma d'intelligenza collettiva e da Internet sta nascendo una forma d'intelligenza compresa tra le due. Se ciò è vero il ruolo della scuola, in quanto agenzia educativa, è favorire lo scambio dell'informazione di qualità dal libro alla parola orale e all'immagine e dall'immagine al libro. Un gioco a ritroso insomma del quale la scuola potrebbe farsi "piacevole" protagonista.


    "La Provincia pavese" 22.11.2000

    Pavia, il problema dei bambini a scuola e delle identità

    I nomadi? Bisogna convivere

    "Sei un gagio". Il "gagio" è l'altro, il diverso, lo straniero. C'è inevitabilmente del dispregio nel termine. Questo sono io per gli "zingari". Ma guai a chiamarli "zingari"! A Pavia sono Sinti e "zingaro", con il disprezzo che ci mettiamo nel dirlo, è un insulto.
    Osservo questo Rom istruito, vestito di nero come un prete, presidente dell'Opera Nomadi lombarda. E' un uomo pacato, scuro di carnagione, parlata senza doppie, tipica dei nostri "nomadi" che nomadi non lo sono quasi più perché, se si spostano, lo fanno in un'area ristretta di poche decine di chilometri. Sarà il "mediatore culturale" nel progetto che la scuola Cabral ha avviato, l'uomo-ponte tra due culture irrimediabilmente ostili.
    Da decenni abbiamo alunni Sinti nelle nostre classi e le difficoltà sono molte. Ci aspettiamo aiuti concreti dal suo intervento.
    Non sono sicuro di capire quale sia il suo obiettivo. Sappiamo entrambi che non è possibile nessuna vera integrazione tra Sinti - o Rom - e residenti italiani. Sono realtà inconciliabili, almeno per il momento. Eppure tra noi insegnanti, da una parte, e lui, con i Servizi sociali, dall'altra, si cerca un terreno d'incontro per rendere più facile la convivenza delle etnie presenti sul territorio, nel rispetto delle differenti identità. E' una questione di civiltà.
    Cosa ci accomuna? Forse l'idea che la miglior conoscenza dell'altro porti ad una maggiore disponibilità e la convinzione che elevare il livello di scolarizzazione individuale sia di beneficio anche alla collettività. Non ci facciamo illusioni: i problemi sono tanti. I Sinti mandano a scuola i ragazzini malvolentieri. Lo fanno perché hanno uno loro "politica" di mediazione con le istituzioni, ma non ci credono più di tanto, né intendono mescolarsi con i "gagi".
    I locali, quelli con una casa di mattoni e un tetto sopra alla testa, considerano gli "zingari" ladri, sporchi e cattivi e non vorrebbero che i loro figli frequentassero le stesse scuole. Così stanno le cose, se non vogliamo essere ipocriti.
    Gli insegnanti, garanti dell'obbligo scolastico, esteso al primo anno delle superiori, faticosamente cercano di mediare le tensioni, specialmente nelle "scuole di frontiera" - vicino ai campi, cioè - dove la presenza dei "nomadi" è massiccia. Francamente, però, dispongono di scarsi strumenti adeguati e mancano di preparazione specifica.
    La miope propaganda razzista delle destre e la politica dello struzzo del centro-sinistra - i problemi non ci sono fin quando qualche scocciatore non li tira fuori - hanno peggiorato la situazione. Ora è evidente che non si possono spazzar via due affollati campi (con problematiche diversissime tra loro) e poi spargere letame dove sorgevano, come intendeva fare - o ha fatto - l'illuminato sindaco leghista di un paesotto lombardo.
    E' altrettanto evidente quanto sia rischioso affrontare seriamente la ricollocazione di una comunità tanto scomoda senza scatenare contraccolpi politici. Da tutte le parti è facile essere demagogici su questo argomento. Se non è già troppo tardi, bisogna cominciare a gettare ponti tra sponde che si stanno sempre più divaricando. Rivolgersi a "mediatori culturali" sembra una buona strada intrapresa dall'attuale Amministrazione comunale. Tuttavia, in termini quantitativi, l'impegno resta inadeguato.
    Purtroppo la cronica carenza di fondi dichiarata dalle istituzioni - e una certa sordità per i reali bisogni della scuola - incide sulle scelte. Gli stessi motivi impediscono all'Ufficio scolastico provinciale (ex Provveditorato) di svolgere la sua parte aggiungendo docenti di sostegno là dove la concentrazione di molti bambini nomadi lo rende indispensabile.
    Ormai le nostre classi accolgono arabi, cinesi, slavi, africani e Sinti. Viviamo una realtà che necessariamente ci induce a progettare in funzione della specificità di culture diverse dalla dominante. In un futuro molto prossimo la presenza di stranieri costringerà tutte le scuole a misurarsi con questo fatto. Senza "mediatori culturali", senza figure di riferimento che conoscano a fondo lingua, mentalità e costumi dei loro popoli, ben poco si potrà fare per educare tutti al reciproco rispetto.
    Noi siamo "maestri" e il nostro scopo è "educare", non soltanto trasmettere sapere. Ma siamo anche i famosi "vasi di coccio" che rotolano in compagnia del vaso di ferro. Vaso di ferro è la rovinosa ottusità di chi non capisce l'improrogabilità di trovare soluzioni equilibrate ai problemi pagando quanto è necessario in termini di tempo, energie e soldi. Demonizzare gli altri per la loro irriducibile diversità, è facile e spesso strappa l'applauso convinto dei "nostri", ma esaspera le situazioni innescando un disastroso cortocircuito di odio e paura. Spendersi per comprendere i diversi costa fatica e rende pochissima riconoscenza. Ciò nonostante è l'unica via che resta, a parte gli esorcismi e la violenza xenofoba.

    ARTICOLI VARI


    "La Provincia Pavese" 15 settembre 2001

    I drammi e le diseguaglianze anche nel nuovo secolo

    E la guerra non è ripudiata

    Il Novecento - "secolo del sangue" l'ha definito il Dalai Lama, premio Nobel per la pace - è finito e sembra che nulla faccia più orrore della memoria storica. Si vuole dimenticare.
    Come immagini che tornano alla latenza, svaniscono le carneficine in trincea del primo conflitto mondiale, bombardamenti, guerre civili e sbarchi del secondo. Si mette in forse l'olocausto dei campi di concentramento, Hiroschima e Nagasakhi non evocano tragici ricordi.
    Altre guerre, stragi e massacri perdono rapidamente il favore delle prime pagine e spariscono dalla coscienza collettiva: dal Vietnam all'ex Jugoslavia e alla Cecenia; dall'Angola al Ruanda al Kurdistan. Intanto una lunga striscia di dolore continua a percorrere il sud del mondo: America Latina, Africa, Medio Oriente, Asia. Né sono soltanto le guerre guerreggiate a mietere vittime, soprattutto tra i civili. Dove possono essere iscritti i morti giornalieri sul fronte del lavoro privo ormai d'ogni sicurezza? E quelli per fame?
    Il nuovo secolo non sembra migliore del precedente. Siamo soltanto all'11 settembre del 2001 e a New York si consuma il più grave e spettacolare atto terroristico che la storia ricordi. Un numero incalcolabile di morti, frutto d'un odio che ha perso qualsiasi connotato d'umanità. Si dice: "Niente sarà più come prima". Vero probabilmente: soprattutto nel senso che saremo tutti un po' meno liberi di muoverci, di parlare, di pensarla diversamente. Saremo ancor più globalizzati.
    Ma quanto ci metteranno i media a dimenticare e a far dimenticare? Nell'ossessione del "tempo reale", nessun elogio della lentezza è permesso. Guai a fermarsi, guardarsi indietro, chiedersi perché. La perdita di memoria non è soltanto storica, ma anche culturale. A duecentocinquant'anni di distanza dalle meditazioni voltairiane sulla miseria umana, sembra mancare la lucidità critica per comprendere che questo non è il migliore dei mondi possibile.
    Aumenta la disuguaglianza e intere categorie di lavoratori sprofondano nella povertà. In un clima di selvaggio darwinismo sociale, tutti coloro che, per qualche ragione, sono più forti, tendono a sopraffare i più deboli.
    La guerra, lungi dall'essere "ripudiata", come recita la nostra dimenticata Costituzione, torna a diventare una fatale necessità.

    Gli uomini d'affari

    Piaccia o non piaccia, il mondo è in mano a multinazionali finanziarie d'inedita potenza economica, assolutamente prive di scrupoli etici, feroci nell'affermazione del proprio dominio. All'interno di una logica di mercificazione assoluta, anche i peggiori criminali diventano rispettabili uomini d'affari.
    Allegramente ci si avvia verso un disastro ampiamente annunciato continuando a correre, come locomotiva impazzita, sui binari di uno sviluppo assolutamente non sostenibile e sempre più deregolamentato.
    Un costituzionalista come Giuseppe Branca scriveva, in prefazione ad una pubblicazione della Costituzione per le scuole, che senza regole "i forti picchierebbero i deboli, i furbi ingannerebbero gli ingenui, i ricchi schiaccerebbero i poveri". Parole semplici, sicuramente non condivise da chi vuole essere libero di muoversi senza leggi se non quelle dettate dalla new economy.

    Costituzione addio

    Tra i tanti oblii non ultimo quello dell'articolo 3 della fondamentale legge che, per il momento almeno, ancora ci regola. Dice: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alle leggi, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
    E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando, di fatto, la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Sembra incredibile.
    Davvero datori di lavoro e lavoratori sempre più precari hanno la stessa dignità sociale? Davvero chi può permettersi avvocati di prim'ordine è tra i cittadini uguali davanti alle leggi? Davvero il sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, l'essere ricco o povero, professionista di successo o disoccupato non fa distinzione?
    Discriminare i diversi per razza, abitudini sessuali, condizioni fisiche ed economiche, modo di pensare è la norma e c'è ormai chi se ne fa vanto ottenendo consensi anche elettorali. L'aumento costante del divario tra persona e persona e l'avvicinarsi alla "tolleranza zero" è sotto gli occhi di tutti.
    "Tolleranza": parola che la dice lunga e, già di per sé, da rifiutare. Si "tollera" ciò che è sgradevole e dannoso. Indica sopportazione benevola dell'altro che rimane diverso e lontano. Non ha nulla a che vedere con il rispetto e i diritti. Invece le opinioni, i modi di vivere, l'aspetto fisico, le condizioni culturali ed economiche diverse dalla norma non possono essere oggetto di tolleranza, ma di rispetto e diritti riconosciuti. Soltanto così si garantisce dignità sociale.
    Là dove manca la dignità, rispetto di sé e degli altri, resta il potere di chi sta sopra e il servilismo che sempre più sembra tenere insieme questa società. Non si esce da questo circolo vizioso con un po' di pelosa elemosina e compianto per chi sta peggio. Se ne esce ridando dignità ai due terzi del mondo che l'hanno persa. Ne saremo mai capaci?



    "La Provincia Pavese" 28 settembre 2001

    Retroterra e «mandanti» dell'attacco contro New York

    L'obiettivo: fermare l'odio

    Dopo il massacro alle torri gemelle di New York dell'11 settembre (ormai data storica) niente sarà più come prima. L'ho pensato e detto anch'io, ma sarà poi vero? Forse già "niente era più come prima".
    Ben pochi al mondo non hanno visto le immagini trasmesse dalla CNN con il titolo America under attack. Tra questi sono i partecipanti all'edizione americana del "Grande Fratello", cosa che meriterebbe molte considerazioni. La cronaca è stata degna delle più apocalittiche fantasie. La successiva retorica delle dichiarazioni ha dimostrato, se ce ne fosse stato ancora bisogno, l'incapacità della TV parlata a penetrare la superficie degli eventi. Del resto, e lo diceva già Aristotele, un'immagine vale mille parole. Eppure quanto è successo non può restare consegnato alla sua tragica spettacolarità.
    Condannare l'inaudito atto di criminalità è una reazione giusta e spontanea. Impossibile non sentirsi solidali con le migliaia di persone morte in maniera tanto atroce ed ancor più con i vivi rimasti ad elaborare un difficile lutto. Ci si domanda come esseri umani possano nutrire tanto odio per altri esseri umani da concepire un simile piano. L'odio è un sentimento viscerale che non tutti conoscono a fondo - io sono tra quelli -. Probabilmente è una fortuna. Ha fatto male, ad esempio, vedere immagini di palestinesi esultanti per l'attentato, ma forse loro sanno bene cosa significhi odiare dopo decenni d'occupazione israeliana. Per me, e credo per molti occidentali, è inconcepibile pensare a quelli che vengono definiti con rispetto dal loro popolo "martiri". D'acchito si direbbero esaltati, deboli di mente. Come è possibile imbottirsi d'esplosivo e andare ad ammazzare o straziare giovani che ballano in una discoteca, donne e bambini che viaggiano su un autobus? Se il discorso cambia quando gli obiettivi sono militari, resta comunque l'incomprensibilità del togliersi la vita. Come si fa ad azzerare l'istinto di sopravvivenza, quell'istinto che ha permesso agli ebrei di sopravvivere all'orrore dei campi di sterminio?
    Le radici dell'odio sono profonde. Chi tra noi occidentali ricorda i duemila palestinesi e libanesi dei campi di Sabra e Chatila, alla periferia di Beirut, massacrati dal 16 al 18 settembre del 1982? Sharon, attuale leader israeliano, ne era il responsabile e magari per questa ferocità senza precedenti, che in qualche modo induce sicurezza, è stato eletto dai connazionali. Ma la disumanità è contagiosa e quando non c'è più niente da perdere perché è troppo difficile vivere si può buttar via la propria vita per fare un po' di male al nemico. E' terribile, come è terribile sentire i capi politici e spirituali di queste persone disperate istigare all'odio e alla violenza senza rischiare troppo in prima persona. Anche i terroristi che hanno colpito l'America e, probabilmente, dato una svolta alla storia contemporanea devono credere totalmente alle proprie ragioni per aver fatto quanto hanno fatto. Alla luce della ragione non può esserci motivazione che giustifichi un tale atto. Per quanto sia grande una sofferenza e per quanto sia grande il desiderio di vendetta, un conto è colpire i responsabili diretti, altro conto indurre morte e sofferenze inaudite in migliaia di persone prese a caso.
    Se la storia non inganna dietro comportamenti tanto irrazionali stanno convincimenti ideologici e religiosi alimentati ad arte da capi senza scrupoli che fanno della gerarchia, e del servilismo che ne consegue, la base del proprio indiscusso potere. Altroché fine delle ideologie!
    Io non so se Bin Laden sia il mandante della strage americana, ciò che si sa è che la CIA ha usato cinicamente in chiave antisovietica gli estremisti islamici e Bin Laden, finanziandoli ed armandoli, col bel risultato di mandare al potere i settari Talebani in Afghanistan. Ancora una volta a subire le conseguenze di politiche irresponsabili non siamo stati noi occidentali, ma gli abitanti di quel povero paese, in particolare le donne cadute in un abisso di orrori. Ora i Talebani minacciano ritorsioni sul mondo invitando tutti gli islamici ad unirsi a loro nella Jihad, la guerra santa, contro il diavolo occidentale. "Guerra santa": altra follia ricorrente delle religioni per giustificare l'ingiustificabile (anche le crociate erano "guerre sante"). Bin Laden è certamente un sanguinario fanatico sunnita ("sunna": regola di comportamento tratta dal Corano) convinto che il suo dio l'ha aiutato a sconfiggere la Russia e l'aiuterà a distruggere l'America, ma nessuno può, per questo, sentirsi autorizzato a considerare i musulmani in blocco come responsabili di quanto è avvenuto.
    I fedeli islamici sunniti non sono tutti fondamentalisti assetati del sangue dei non credenti. I più, anzi, sono persone di grande civiltà benché con referenze culturali differenti dalle nostre. Cerchiamo di non fare il tragico errore di sospingere quelli culturalmente meno attrezzati tra le braccia degli integralismi religiosi così come tra le braccia del più becero razzismo stanno finendo frange consistenti di "civilissimi" occidentali. Personalmente sono agnostico, appartengo dunque ad una infima minoranza nel mondo, però rabbrividisco nel constatare il disprezzo per l'altrui esistenza e dignità di appartenenti a fedi che pure hanno nei loro testi richiami precisi alla sacralità della vita. Dimenticare che i musulmani sono tra le comunità di credenti più numerose nel mondo, cadendo nella trappola di una guerra tra opposte ideologie, sarebbe disastroso. Questo è il vero obiettivo di chi ha scatenato il terrore a New York. Odio chiama odio in una spirale che solo razionalità e comprensione possono spezzare.




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