16.1.05

CIAO, SIGNOR MAESTRO!

copertina libroCopertina di La mia scuola. Chi insegna si racconta, Enaudi, Gli struzzi, To, novembre 2005 (cur. Chiesa D., Trucco Zagrebelsky C.)

Gli insegnanti di tutta Italia - a partire da esperienze personali, dalla vita quotidiana in classe - raccontano cosa significhi oggi insegnare: tra difficoltà, riforme, molte frustrazioni e qualche gioia. Grazie a un'iniziativa promossa nelle scuole, dal sito web della casa editrice Einaudi e da "La Stampa", docenti di tutta la Penisola hanno fatto pervenire i propri racconti in prima persona. Il risultato è un ritratto corale della scuola dei nostri giorni, dal Nord al Sud. internetbookshop

A questo libro ho dato anch'io il mio contributo con il racconto "Ciao, signor maestro" che riproduco.

Il primo posto di ruolo l’ho avuto in un paesino di quattro case, una grande stalla e un’osteria, sprofondato nella pianura ai margini della città. Da casa mia, in città, ci arrivavo in auto in venti minuti anche con la nebbia ed era come entrare in un altro mondo. In città c’erano i fascisti e i comunisti e in mezzo, potente e inamovibile, la DC. Nati democristiani temevamo, (sciocchi!) di morire democristiani.
Giovani estremisti di destra e di sinistra se le davano di santa ragione forse aspirando, nella loro giovanile confusione, a cose non troppo diverse gli uni dagli altri. Ma questo lo si sarebbe capito soltanto molto più tardi. Allora c’era la politica come passione e il sindacato come necessità. Si credeva nella “lotta di classe”.
In fondo era tutto più semplice: padroni da una parte, operai dall’altra. Non a caso Mastronardi, il maestro di Vigevano, raccontava in che modo a scuola si scambiavano i figli degli operai con quelli pregiati dei padroni scarpari, come figurine.

«Ciao signor maestro». La scuola era uno stanzone al piano terra su un corridoio vuoto. La nostra era l’unica classe, una pluriclasse. Le finestre sul retro spaziavano nei campi oltre un cortiletto cintato. Ero riuscito a farmi dire “ciao” ma il “signor” restava. Graziella però s’aggrappava e mi dava un bacio sulla barba d’ordinanza da Gesù Cristo. Graziella era la più piccolina sei anni mal contati, un peperino minuto con due spazzolini di codini sopra le orecchie. La sola a far la prima tra gli undici alunni. La sfida per il neomaestro: saprei mai insegnarle a leggere e scrivere? In seconda erano in quattro, tre bimbette e un maschietto. Due in terza, uno in quarta e tre in quinta. In tutto quattro “uomini” (cinque con me) e sette “donne”.

La ragazza della quinta, una quattordicenne dolce e pacata, era davvero un donnino. Con lei due fratelli: il più giovane sveglio come un furetto, in seconda; il più vecchio, dinoccolato e un po’ ombroso, ancora in quarta pur avendo già una quindicina d’anni. Abituata a far da mamma con il suo buonsenso mi ha dato una mano a gestire la situazione tutte le volte che si complicava. Più che una alunna è stata un’aiutante preziosa. Era lei a tenere un po’ d’ordine in classe e a caricare la stufa di legna nelle fredde mattinate invernali. Lei accudiva i piccoli quando frignavano e sempre lei teneva a freno le imprevedibili intemperanze del fratello maggiore.

C’era una grande stufa di ghisa in mezzo all’aula a riscaldarci quando fuori nevicava fitto e poi gelava. Altro che seiduesei! [1] La bidella si vedeva di rado. La mattina ci faceva trovare l’aula pulita e la stufa accesa, ma quando arrivavo io lei non c’era già più, probabilmente impegnata in qualche altra occupazione. Era Maria – si chiamava Maria la mia quattordicenne, un nome d’altri tempi – a tenere buoni tutti fino al mio arrivo, se tardavo un po’. Io, da sempre abituato ai termosifoni, ne mettevo troppa di legna nella stufa, fino a farla diventare incandescente e allora i pomelli delle guance, già per conto loro tendenti al rosso, si accendevano ancor di più. In particolare quelli di Patrizia che faceva seconda e aveva occhi grandi color del mare e trecce bionde come il grano maturo.
Dopo la merenda delle dieci e mezza si andava tutti fuori in cortile a fare a palle di neve e, se c’era il sole a sciogliere un po’ il ghiaccio, gli alberi sgocciolavano nell’azzurro terso. Era una meraviglia e si faticava a rientrare. Bagnati fradici ci raccoglievamo intorno alla stufa rovente con le scarpe che fumavano. Io leggevo qualche storia di Rodari tra l’attenzione generale. Leggendo, disegnando e chiacchierando arrivavano le dodici e mezza senza che ce ne accorgessimo.

Nelle giornate migliori – a scuola non tutte le giornate sono uguali – sembrava quasi un peccato smettere e quando dicevo «È ora ragazzi, a casa!» mi rispondevano in coro «Nooo… di già?!»
Le mie preoccupazioni pedagogiche non erano eccessive. L’attività didattica si concentrava nelle prime due ore. Mi ero procurato risme di carta e fogli da pacco, pennarelli di ogni misura, pastelli ad olio e a cera, pennelli e tempere e anche un ciclostile ad alcool per fare un giornalino in stile Célestine Freinet. Nessuno rimaneva a lungo senza sapere cosa fare. Distribuivo le schede preparate in base alle necessità individuali o di gruppo. Le battevo sul computer dell’epoca, una gloriosa Olivetti “lettera 22”, macchina da scrivere portatile. Permettevo sempre che si aiutassero reciprocamente. Io passavo tra i banchi, raggruppati per formare tavoli, a dare una mano.

Graziella, con il privilegio dell’ultima arrivata, si arrampicava sulle mie ginocchia si accomodava per bene e lì, ben protetta, imparava i rudimenti della lettura e della scrittura con un metodo rigorosamente globale. Ho avuto fortuna perché era lei molto in gamba e nessuno l’aveva ancora rovinata con le “letterine” a pappagallo “a bi ci di…” che non si leggono così, ché “ho fatto un giro in bici” diventerebbe “accao effeatitio uenne giierreo ienne biicii”. Dopo Natale leggeva e scriveva senza intoppi pure senza aver composto nessuna natalizia lettera-incubo come quella che il mio maestro aveva fatto stendere a me. Decine di volte l’avevo riscritta tra lacrime e rimbrotti prima che gli sbaffi d’inchiostro diventassero presentabili per il pranzo di Natale.

Fin da allora sapevo, per averlo letto da qualche parte, che i bambini imparano a leggere e a scrivere comunque, nonostante gli insegnanti, a meno che non abbiano problemi particolari. Con l’esperienza ne ho avuto conferma così come del fatto che è l’apprensione degli adulti il peggior fattore ritardante dell’apprendimento. Anche parolacce come dislessia e discalculia, terrore degli insegnanti consapevoli, il più delle volte vengono superate da chi ne soffre seguendo ignote vie mentali, diverse da quelle battute dai più, a patto che ci siano tempi adeguati, non dettati dalla presunta rigidità dei programmi.


Fresco vincitore di concorso e fresco di studi, mi rendeva felice il facile successo. Per la prima volta avevo la sensazione di aver insegnato davvero qualcosa a qualcuno.In realtà non ero all’esperienza iniziale. Prima del concorso, avevo vagato tre anni in scuole medie sperse tra le viti dell’oltrepò e le risaie lomelline.


Intanto era arrivata l’820, la legge istitutiva del tempo pieno, quella abrogata lo scorso anno dalla nostra ineffabile Moratti che a sentirla duettare in TV col suo compare e superiore sembra averlo istituito lei il tempo pieno e non abolito. Con i direttori di nuova nomina si ragionava in sintonia pedagogica. Uno di loro, più tardi diventato provveditore, invitò me e la mia compagna a organizzarne uno nuovo nuovo, “sperimentale”. Tempo pieno voleva dire scuola aperta tutto il giorno, eliminazione della figura del “maestro unico”, compresenza tra docenti in base alle diverse competenze, laboratori, attività di gruppo, individualizzazione dell’apprendimento per chi ne aveva bisogno, rispetto dei ritmi biologici infantili, alternanza di gioco e lavoro in un clima di mutua collaborazione. Contrariamente a quel che si crede non c’era lassismo, c’era entusiasmo. Era recente l’insegnamento di Don Milani e la sua scuola di Barbiana. Einaudi pubblicava i libri di Mario Lodi. Umberto Eco scorazzava l’Italia con i suoi pamphlet contro le idiozie dei libri di testo. La scuola era in auge, insegnare tornava ad essere un lavoro dignitoso, ancorché mal pagato. La figura “missionaria” e francamente patetica della “maestrina dalla penna rossa” finalmente sbiadiva. Alle spalle si sentiva il “movimento”. Per dirla con le parole di Musil “Era passato qualcosa come quando molti alberi si piegano sotto una stessa ventata; uno spirito di setta e di riforma […] una piccola resurrezione come ne possono avvenire soltanto nei tempi migliori”.

Da allora, per un trentennio il tempo pieno è stato il mio territorio e mi sono opposto quando qualcuno ha cercato di trasformarlo in “tre per due” e “quattro per tre”, formule per nascondere tagli di personale scolastico. Ho sempre usato l’adozione alternativa dei libro di testo utilizzando i fondi, come permette una legge poco usata, per ampliare la biblioteca di classe. Mi sono aggiornato a mie spese prima insieme agli amici del Movimento di Cooperazione Educativa e poi in ogni altro modo possibile. Sono tornato in università a varie riprese per rinnovare le mie conoscenze. Ho sempre fatto parte di tutti gli organi collegiali possibili dal consiglio d’istituto al consiglio scolastico provinciale. Sono stato uno di quei rompipalle che quando prendono la parola in collegio docenti tutti si segnano perché «Uffa! Anche oggi non si va più a casa…». Conosco la scuola in tutti i suoi pregi e difetti. So quanto è cambiata nel tempo e quanto sono cambiato io con lei.
La scuola che ho vissuto non è quella del burnout degli insegnanti anche se capisco perfettamente chi ne è vittima. Non mi sono spento nella routine del ripetere sempre le stesse cose. Ho dedicato energie a lottare contro i mulini a vento e inaspettatamente ho ricevuto gratificazioni anche se non di carattere economico. Sarei morto nella noia se non avessi cercato stimoli di cambiamento. Così sono passato insieme ai miei ragazzi e ai colleghi che hanno voluto seguirmi dal cinema in superotto alle proiezioni in sedici millimetri, dalle telecamere semicieche della prima generazione alle prestazioni digitali, dalla fotografia in bianco e nero sviluppata nella magia della camera oscura alla manipolazione delle immagini con i Mac e gli Amiga, alla multimedialità, alla costruzione di siti e all’e-learning.

Questa sbrodolata per dire che non mi sono fermato alle barricate parigine del ’68 che, è stato scritto, dovevano essere lunghe come la muraglia cinese per ospitare tutti quanti affermano di esserci stati. Negli ultimi dieci anni mi sono occupato di TIC [2] e didattica. La nostra scuola ha un sito Internet tra i più funzionanti, edifici cablati, risorse condivise in rete Lan e oltre un centinaio di computer, sparsi tra aule e laboratori, per circa ottocento alunni. So benissimo che l’informatizzazione ha un senso solo se viene usata e non è facile far breccia in certe mentalità docenti. Ma se ho potuto spingere in questa direzione è perché ho trovato dirigenti e colleghi capaci di lavorare con il mio stesso entusiasmo.
Non è vero insomma che la scuola pubblica è soltanto quella dei muri sbrecciati, dei cessi rotti, degli infissi cadenti proposta dalla televisione. Ho conosciuto splendidi insegnati nel corso del tempo in innumerevoli convegni. Molti mi hanno fatto schiattare d’invidia perché sanno fare cose che io non mi sogno neanche. Altri sono capaci di un rapporto con i loro ragazzi così ricco come raramente sono stato in grado d’instaurare.
Non ne ricordo uno di scuola privata, anche se sicuramente ce ne saranno.

Personalmente ho fatto errori pedagogici e comportamentali per i quali, proprio perché ne conosco la portata, volentieri mi schiaffeggerei. Va messo in conto: si sbaglia spesso, anche sapendo di sbagliare. Mi sono cimentato in parecchie imprese, ma stranamente la mia area è stata quasi sempre quella matematica. Non ne sapevo quasi niente: i miei studi hanno provenienze umanistiche e mi è costato fatica darmi una preparazione in questo settore. Si è trattato con ogni probabilità di un’altra sfida e un’altra verifica pedagogica. Ho imparato molto insieme hai miei alunni proprio perché sapevo poco e il metodo per capire dovevo applicarlo anche su di me. Nella matematica razionalità, fantasia e gioco si mescolano in maniera imprevedibile. Osservare gli alunni crescere nel corso dei quinquenni e vederli divertirsi nell’uso di procedimenti logici fino a diventare, talvolta, più bravi di me è stata un’altra notevole soddisfazione.

Mi accorgo di essere ormai alla quarta cartella e non ho detto quasi niente di quanto avrei voluto. Poco male. Un’impresa collettiva di scrittura, è un po’ come “l’intelligenza collettiva” di cui parla Pierre Levy a proposito della conoscenza che viene condivisa nelle comunità virtuali sul WEB. La collezione degli interventi esaurirà tutte le posizioni possibili. Non vorrei però aver dato una visione idilliaca del mestiere di insegnare. Checché se ne dica nella scuola i carichi di lavoro sono aumentati e il valore d’acquisto degli stipendi si è ridotto. Il prestigio sociale degli insegnanti è ai minimi storici. I genitori hanno sempre più pretese in misura inversamente proporzionale alla capacità di condurre relazioni corrette con i figli. Precarietà, conflitti con colleghi e dirigenti, insicurezza circa il proprio ruolo nella società determinano ansie difficilmente placabili. Scarsa preparazione didattico-pedagogica-psicologica, indipendentemente dalle cognizioni specifiche nelle materie insegnate, causano difficoltà insanabili nel controllare la qualità del rapporto docente-discente. Non c’è di che meravigliarsi se l’insegnamento è considerato una attività di ripiego. Eppure questo “mestiere” mi ha dato più tempo per leggere e pensare. Ho potuto anche “riciclarmi” in base agli interessi, riguardassero la letteratura, la comunicazione audiovisiva o l’informatica. Ho accumulato conoscenze, spesso inutili perché non richieste, ma appaganti la curiosità. Così mi è stato permesso di capire molto più di quanto accada ad altri lavoratori della mente.

Avrei voluto scrivere di Antonio un tredicenne con lo sguardo da uomo che, appena arrivato, vagava indesiderato nei corridoi affidato alle cure di una insegnante di sostegno. Non sapeva né leggere né scrivere. Far di conto si, pur senza aver frequentato un giorno di scuola, avendo lavorato dall’età di sei anni nei mercati del sud. Approdato nella mia classe attraverso la porta aperta sul corridoio è rimasto con me due anni seguendomi anche in uno spostamento di plesso da una parte all’altra della città. Ha imparato quel tanto sufficiente a fargli superare la quinta elementare, frequentare poi le 150 ore e diventare un combattivo lavoratore.
O scrivere di una decenne napoletana consapevole dei sui diritti al punto di trasformare in pochi mesi un gruppetto di coetanee abbastanza timide e sottomesse in agguerrite femministe capaci di tener testa anche ai compagni più maschilisti.
O dire di quella volta che giocando a pallacanestro schierato con i più deboli contro i più forti (sempre così accade quando le squadre se le fanno da soli) sono malamente ruzzolato a terra rompendomi tre dita e mentre me ne stavo lì in mezzo alla palestra dolorante e incredulo guardandomele pendere dalla mano qualcuno dietro di me ha protestato: « …e allora maestro, quando ricominciamo!»
Cento altri episodi tornano alla memoria, ma è finito lo spazio. Ciao a tutti ragazzi!



[1] Ddl 626/94. Norme per la sicurezza e la salute negli ambienti di lavoro.
[2] TIC: tecnologia dell’informazione e della comunicazione [N.d.R]

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