23.1.05

La "non-riforma targata Moratti"

"Tracciati" febbraio 2002

Obiettivo: non scontentare chi conta davvero

A bocce ferme – si fa per dire perché ogni giorno ne salta fuori una nuova – sarebbe il caso di parlare un po’ di questa riforma-nonriforma-controriforma della scuola, ammesso e non concesso che a qualcuno interessi qualcosa. Come docente e curatore di siti scolastici ho seguito gli eventi attraverso la stampa nazionale ed Internet mettendo a disposizione d’insegnanti, genitori e quant’altri volessero una notevole messe d’articoli e documenti affinché ciascuno, in proprio, cercasse di farsi un’idea di quanto sta accadendo. Da parte mia confesso un certo disagio di comprensione. Scrivo dunque anche per capire e confrontarmi con i tanti colleghi che conosco e non si sono fermati alla valenza pedagogica dei “pensi” fatti trascrivere centinaia di volte sul quaderno, come ancora accade in un noto liceo pavese.
Parto da un dato significativo: un terzo dei cittadini italiani si colloca al limite dell'analfabetismo, cioè non dispone delle competenze culturali necessarie a leggere ed interpretare senza difficoltà un testo in prosa (un articolo di giornale o una lettera), a comprendere un grafico, a risolvere problemi di matematica o a svolgere semplici operazioni aritmetiche. Di questi, il 5% è del tutto analfabeta. Il fenomeno è particolarmente evidente tra coloro che hanno superato i cinquant’anni (ricerca IALS-SIALS, dati elaborati dal Censis).
Al proposito rilevo due cose: la scuola non ha fallito del tutto se gli under venticinque risultano dotati di una migliore competenza alfabetica; il grande aumento numerico degli anziani nella società indurrebbe ad una serie di considerazioni correlate dalle quali necessariamente mi astengo.
En passant riporto un trafiletto di Giorgio Bocca dal giornale La Repubblica: “Il 47 per cento degli iscritti a Forza Italia (il partito nazionale che la propaganda dell’onnipotente sistema televisivo assieme ai suoi vassalli e valvassori nella carta stampata descrive come il partito della buona borghesia emergente, del terziario informatico che sa le cose nuove del mondo) è privo di un titolo di studio superiore a quello elementare, il 78 per cento si riconosce nella cultura pubblicitaria di Mediaset”. Ricordo inoltre che la tanto, per molti versi legittimamente, vituperata riforma Gentile aveva il giusto presupposto di vincere la piaga dell’analfabetismo. Scrive Enzo Siciliano che “il fascismo delle prime ore si poteva permettere di dare il via a una scuola dove era affermato sia il principio della gratuità per tutti sia l’obbligo scolastico”.
La scuola di massa è un’invenzione abbastanza recente se si pensa, per esempio, al rigido sbarramento nell'eccesso alla scuola secondaria, mantenuto fino al 1962 con l'esame di licenza alla media non ancora unica. Considerando che la scuola pubblica, in Italia e altrove, è nata come esigenza di replicare la società della quale è funzione educante si comprende perché non si sia mai davvero liberata dalla sua vocazione primaria di riproduzione dell’élite dirigente. Tuttavia la scuola democratica di massa si è fatta strada nel corpo obsoleto della scuola per pochi dotati – soprattutto per meriti di censo. “Andare a spezzare il pane della cultura”, come dice con indulgente ironia una cara amica prof., è diventata una giornaliera consuetudine per tanti che lo fanno da anni e bene, più di quanto sia giustificato dalla considerazione sociale e dalla gratificazione economica che il mestiere dell’insegnare porta con sé. Parlo di “mestiere” perché insegnante è colui che ha una competenza pedagogica, didattica, psicologica e culturale costruita sui libri, consolidata nella pratica quotidiana e continuamente aggiornata in base ai cambiamenti sociali ed alle esigenze esistenziali dell’allievo. Sono cattivi maestri non soltanto quelli che non sanno, ma anche quelli che, pur sapendo tutto della loro materia, sono incapaci di trasmetterla e troppo spesso incolpano dell’insuccesso chi sta loro di fronte annoiato e perplesso. Ha ragione Raffaele Simone a segnalare il divario enorme che separa i giovani dalla scuola. Questo divario non è colmabile semplicemente rinnovando l’architettura scolastica. Se i prossimi educatori continueranno ad entrare nella scuola del tutto impreparati ad insegnare la distanza tra docenti e discenti s’accentuerà anziché diminuire. La scuola democratica di massa avrebbe dovuto assicurare, in primo luogo, una formazione di buon livello all'intera popolazione e che abbia fallito, nella sostanza, tale obiettivo si deve al fatto che una parte consistente del corpo docente non ha capito, quale fosse davvero il suo nuovo compito. Ne è controprova la continua resistenza ad ogni proposta di cambiamento, ultima in ordine di tempo quella nei confronti della riforma Berlinguer che, insieme alle evidenti incongruenze, era portatrice di qualche illusione di trent’anni di “buona” pedagogia. Sostiene Roberto Maragliano: “Nella legge 30 del 2000, la riforma dei cicli, c'è l'idea che la mutata situazione sociale richieda un rafforzamento della formazione di base, vale a dire un incremento delle opportunità offerte da una scolarizzazione comune che faccia giustizia di articolazioni strutturali interne (tra elementare e media) non più giustificabili, allo stato attuale, se non in chiave puramente ideologica. L'obiettivo al quale si aspira è assicurare a tutta la popolazione giovanile un'omogenea dotazione culturale e strumentale […]. Il centro gravitazionale di questo impianto non è più nella scuola liceale, com'era nel sistema che per comodità chiamiamo gentiliano, ma risiede, appunto, nella scuola di base”. Letizia Moratti nel testo di delega al governo della sua “riforma” ha fatto piazza pulita d’ogni cosa senza avere alle spalle, come aveva Giovanni Gentile, la pubblicazione dei due volumi del «Sommario di pedagogia come scienza filosofica». Si ritorna ad una radicale separazione tra formazione professionale e licei con ragazzini costretti a scegliere a quattordici anni. Alla fin fine si direbbe che lo scopo di tutta l’operazione legislativa sia condensato nel nono comma del sesto articolo che conclude la delega: “La legge 10 febbraio 2000, n. 30 è abrogata”.
Cosa succederà dopo, devolution e passaggio di competenze alle Regioni compreso, non è dato sapere. La sensazione è che al ministero dell’istruzione (dal quale non a caso si è tolto l’appellativo “pubblica”) si navighi a vista attenti a non scontrarsi con gli interessi degli elettori più potenti, del tutto indifferenti alle esigenze della categoria docente e assolutamente incompetenti rispetto alle necessità didattico-pedagogiche dei ragazzi. Sembra rafforzarsi l’idea che per insegnare basti un po’ di materno buonsenso con buona pace della sbandierata “professionalità”. Di fatto si tagliano gli organici (1300 insegnanti in meno solo in Lombardia il prossimo anno scolastico a fronte di 9000 studenti in più) e si immettono in ruolo 24000 insegnanti di religione cattolica scelti dalla curia, non dallo stato, in una scuola che si vorrebbe, se non laica, almeno aconfessionale. Ancora: dati ufficiali sanciscono una diminuzione di 37000 unità lavorative nel triennio venturo. In fondo tra dare e avere il risultato è positivo per l’”azienda”! Perle in un clima generalizzato di revisione del recente passato che dovrebbe spaventare anche i più benpensanti.
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