23.1.05

E la guerra non è ripudiata

"La Provincia Pavese" 15 settembre 2001

I drammi e le diseguaglianze anche nel nuovo secolo

Il Novecento - "secolo del sangue" l'ha definito il Dalai Lama, premio Nobel per la pace - è finito e sembra che nulla faccia più orrore della memoria storica. Si vuole dimenticare.
Come immagini che tornano alla latenza, svaniscono le carneficine in trincea del primo conflitto mondiale, bombardamenti, guerre civili e sbarchi del secondo. Si mette in forse l'olocausto dei campi di concentramento, Hiroschima e Nagasakhi non evocano tragici ricordi.
Altre guerre, stragi e massacri perdono rapidamente il favore delle prime pagine e spariscono dalla coscienza collettiva: dal Vietnam all'ex Jugoslavia e alla Cecenia; dall'Angola al Ruanda al Kurdistan. Intanto una lunga striscia di dolore continua a percorrere il sud del mondo: America Latina, Africa, Medio Oriente, Asia. Né sono soltanto le guerre guerreggiate a mietere vittime, soprattutto tra i civili. Dove possono essere iscritti i morti giornalieri sul fronte del lavoro privo ormai d'ogni sicurezza? E quelli per fame?
Il nuovo secolo non sembra migliore del precedente. Siamo soltanto all'11 settembre del 2001 e a New York si consuma il più grave e spettacolare atto terroristico che la storia ricordi. Un numero incalcolabile di morti, frutto d'un odio che ha perso qualsiasi connotato d'umanità. Si dice: "Niente sarà più come prima". Vero probabilmente: soprattutto nel senso che saremo tutti un po' meno liberi di muoverci, di parlare, di pensarla diversamente. Saremo ancor più globalizzati.
Ma quanto ci metteranno i media a dimenticare e a far dimenticare? Nell'ossessione del "tempo reale", nessun elogio della lentezza è permesso. Guai a fermarsi, guardarsi indietro, chiedersi perché. La perdita di memoria non è soltanto storica, ma anche culturale. A duecentocinquant'anni di distanza dalle meditazioni voltairiane sulla miseria umana, sembra mancare la lucidità critica per comprendere che questo non è il migliore dei mondi possibile.
Aumenta la disuguaglianza e intere categorie di lavoratori sprofondano nella povertà. In un clima di selvaggio darwinismo sociale, tutti coloro che, per qualche ragione, sono più forti, tendono a sopraffare i più deboli.
La guerra, lungi dall'essere "ripudiata", come recita la nostra dimenticata Costituzione, torna a diventare una fatale necessità.

Gli uomini d'affari

Piaccia o non piaccia, il mondo è in mano a multinazionali finanziarie d'inedita potenza economica, assolutamente prive di scrupoli etici, feroci nell'affermazione del proprio dominio. All'interno di una logica di mercificazione assoluta, anche i peggiori criminali diventano rispettabili uomini d'affari.
Allegramente ci si avvia verso un disastro ampiamente annunciato continuando a correre, come locomotiva impazzita, sui binari di uno sviluppo assolutamente non sostenibile e sempre più deregolamentato.
Un costituzionalista come Giuseppe Branca scriveva, in prefazione ad una pubblicazione della Costituzione per le scuole, che senza regole "i forti picchierebbero i deboli, i furbi ingannerebbero gli ingenui, i ricchi schiaccerebbero i poveri". Parole semplici, sicuramente non condivise da chi vuole essere libero di muoversi senza leggi se non quelle dettate dalla new economy.

Costituzione addio

Tra i tanti oblii non ultimo quello dell'articolo 3 della fondamentale legge che, per il momento almeno, ancora ci regola. Dice: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alle leggi, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando, di fatto, la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Sembra incredibile.
Davvero datori di lavoro e lavoratori sempre più precari hanno la stessa dignità sociale? Davvero chi può permettersi avvocati di prim'ordine è tra i cittadini uguali davanti alle leggi? Davvero il sesso, la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, l'essere ricco o povero, professionista di successo o disoccupato non fa distinzione?
Discriminare i diversi per razza, abitudini sessuali, condizioni fisiche ed economiche, modo di pensare è la norma e c'è ormai chi se ne fa vanto ottenendo consensi anche elettorali. L'aumento costante del divario tra persona e persona e l'avvicinarsi alla "tolleranza zero" è sotto gli occhi di tutti.
"Tolleranza": parola che la dice lunga e, già di per sé, da rifiutare. Si "tollera" ciò che è sgradevole e dannoso. Indica sopportazione benevola dell'altro che rimane diverso e lontano. Non ha nulla a che vedere con il rispetto e i diritti. Invece le opinioni, i modi di vivere, l'aspetto fisico, le condizioni culturali ed economiche diverse dalla norma non possono essere oggetto di tolleranza, ma di rispetto e diritti riconosciuti. Soltanto così si garantisce dignità sociale.
Là dove manca la dignità, rispetto di sé e degli altri, resta il potere di chi sta sopra e il servilismo che sempre più sembra tenere insieme questa società. Non si esce da questo circolo vizioso con un po' di pelosa elemosina e compianto per chi sta peggio. Se ne esce ridando dignità ai due terzi del mondo che l'hanno persa. Ne saremo mai capaci?
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